La flessibilizzazione del rapporto di lavoro viene vista da circa un decennio come il fulcro su cui basare una riforma del mercato del lavoro, capace sia di generare occupazione come di rendere i sistemi produttivi più competitivi.
Si vorrebbe dunque arrivare ad avere un mercato del lavoro flessibile, con minori costi della manodopera per le imprese, una maggiore facilità di ricorso a forme di lavoro temporaneo pur tenendo alte le tutele e le protezioni previste dall’ordinamento in capo ai lavoratori. Questa esigenza da parte dei datori, dovuta congiuntamente all’ampliamento delle dimensione globali dei mercati economici e alla variabilità del costo del lavoro, è intesa sia come un allentamento dei vincoli relativi al rapporto lavorativo tutto inteso, dall’instaurazione alla sua risoluzione, ovvero ad una minor regolamentazione sullo svolgimento del rapporto stesso[1].
Una riflessione sulla nostra situazione in quando a flessibilità del mercato del lavoro non può essere svolta senza considerare l’Italia come membro dell’Unione Europea, la quale recentemente sta intervenendo in modo sempre più incisivo nella politica interna ai singoli membri per guidarne le scelte in un innegabile momento di crisi per le istituzioni comunitarie[2]. Il nostro paese non si trova più nella situazione di poter agire da solo in ambito lavorativo, soprattutto per la rilevanza economica di tali scelte, ma è vincolato invece da una serie di obblighi imposti dall’Europa e deve, compito giuridicamente difficile, effettuare un forte bilanciamento degli interessi dei vari soggetti coinvolti, producendo una riforma che possa accontentare imprese e lavoratori senza pesare eccessivamente sui conti pubblici.
Mentre infatti Bruxelles chiede forti tagli al welfare, un adeguamento delle pensioni e liberalizzazioni in molti settori chiave, è altrettanto vero che ogni paese possiede le proprie caratteristiche e sarebbe pericoloso nonchè errato adeguarsi a certi standard richiesti senza tener conto delle necessarie modifiche attinenti. Nel dibattito su una riforma del diritto del lavoro la flessibilità è sicuramente una delle questioni più complicate da risolvere in quanto appare necessario nel nostro paese un intervento che possa favorire le imprese, italiane e non, che investono nella penisola e fornire allo stesso tempo un’adeguata tutela dei lavoratori.
Il tema della flessibilità, intesa come condizione auspicabile e necessaria per combattere l’irrigidimento del mercato del lavoro, contenere il crescente tasso di disoccupazione e favorire la crescita del Paese, a ben vedere, ha dato vita nello scenario italiano, a seguito della riforma definita con il decreto legislativo nr. 276/2003, a diverse tipologie contrattuali alternative al classico contratto di lavoro subordinato senza per questo essere riuscita a raggiungere un grado di positiva e costruttiva flessibilità. I contratti introdotti sopra citati sono contraddistinti da diversi gradi di autonomia e subordinazione ovvero di garanzie, come i quelli di lavoro part-time, di formazione, l’apprendistato e il lavoro somministrato, ma tuttora non hanno ricevuto grande diffusione[3].
La riforma, ad oggi, non sembra avere sortito gli effetti desiderati, dato testimoniato dall’alto tasso di disoccupazione riguardante la popolazione lavorativa italiana. Va altresì evidenziato come la maggioranza dei contratti c.d. no standard stipulati abbiano visto nella parte del lavoratore, giovani individui che si affacciavano per la prima volta sul mercato del lavoro portando ad una disoccupazione giovanile elevata in rapporto agli standard europei. Il concetto di flessibilità dovrebbe dunque comportare una costante miglioria delle competenze professionali del lavoratore e di conseguenza del livello occupazionale conseguito nonchè della retribuzione economia percepita. Così inteso però, esso corre il rischio di degenerare nel precariato quando rilevano contemporaneamente più fattori di instabilità nel mercato del lavoro che non consento l’assorbimento della domanda di lavoro.
Le associazioni sindacali, constatata la pervicace crisi occupazionale che affligge il sistema lavorativo italiano, pur non condividendo, non si sono opposti incisivamente alla diffusione di codeste tipologie contrattuali ibride che, quantunque talvolta prive delle garanzie proprie del lavoro subordinato a tempo indeterminato e sicuramente causa di una c.d. precarizzazione del lavoro, sono state inizialmente artefici di un impiego nel mercato del lavoro di inoccupati e disoccupati. Posto ciò non si può poi non rilevare in seno al diritto del lavoro un’inadeguatezza schizofrenica della tutela dei lavoratori, ove la stessa venga accordata principalmente qualora ricorra il vincolo di subordinazione, trascurando però quei rapporti che si trovano nella zona grigia compresa tra il lavoro subordinato ex art. 2094 c.c. e quello autonomo ex art. 2222 c.c., nascenti proprio dalla riforma posta in essere[4]. Pertanto, questa incongruenza moderna richiede una contemperazione tra l’esigenza di flessibilità e quella della sicurezza dei lavoratori in armonia con la più recente politica comunitaria.
Connotato da tensioni, ove le spinte dettate dall’esigenza di flessibilità si intensificano, è poi lo spazio afferente all’art. 2103 prevedente il potere di ius variandi del datore di lavoro, ossia il potere direttivo datoriale, norma a tutela dei lavorati che limita il potere di flettere le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa all’interno dell’impresa oltre limiti, in larga parte della giurisprudenza determinati. La difficoltà di mutare mansioni al lavoratore come anche di trasferirlo in altra sede dietro a comprovate ragione tecniche, organizzative e produttive previste ex art. 2103 sono spesso state viste da una parte della dottrina come paletti eccessivamente rigidi, anche se a codesta norma va riconosciuto il merito di aver ricompreso fattispecie lesive dei lavoratori nuove e sempre in evoluzione, consentendo la difesa di essi da comportamenti anomali dei datori di lavoro, come il danno da mobbing.
Per quanto riguarda la posizione dell’Unione Europea in materia di riforme nel campo del lavoro, seppur in mancanza di una univoca produzione giuridica comunitaria, in quanto non si tratta di un argomento di competenza esclusiva dell’Ue, la quale lascia quindi ampio spazio agli stati membri nelle scelte politiche da adottare, una serie di linee guida sono state fornite negli ultimi decenni. E’ indubbio che l’Unione Europea spinga per la realizzazione di un mercato del lavoro flessibile all’interno degli stati membri, come è evidente nel Libro Verde[5] sulla modernizzazione del diritto al lavoro del 22 novembre 2006, un testo che si prefigge di armonizzare le diverse legislazioni del lavoro esistenti nei 27 Paesi dell’Ue e che, per favorire l’occupazione, propone di allentare i vincoli e le garanzie anche per chi ha un contratto a tempo indeterminato prevedendo anche di intervenire sulle garanzie in uscita, ovvero su tutto quell’apparato di norme che protegge il lavoratore da licenziamenti facili. Alla base del Libro Verde vi è il concetto di flexicurity, ossimoro usato per indicare due necessità contrapposte, flessibilità e sicurezza, nel mercato del lavoro.
Questo termine, più politico che giuridico, è generalmente utilizzato nel recente dibattito per descrivere il regime di flessibilità contrattuale della Danimarca[6], laddove, come negli altri paesi nordici, il tasso di disoccupazione è estremamente basso ed il benessere diffuso, al punto da farne un esempio per le politiche europee. Secondo i suoi estimatori questo sistema di flessibilità è funzionante e non risulta opprimente per i lavoratori ma anzi permette loro, tramite un sistema di indennità e apprendimento costante, di reinserirsi in modo efficace nel mercato e vivere dignitosamente.
Per contro vi è chi sostiene che il successo delle politiche di flessibilità danesi dipenda maggiormente dall’elevato Pil pro capite della Danimarca e dalla sua particolare posizione geopolitica, piuttosto che dall’innovazione portata dalla flexicurity.
La sua fattibilità nel nostro paese è ancora oggetto di studio ma sembraessere questa la direzione che prenderanno le prossime riforme ispirate in buona parte alle teorie di Pietro Ichino [7], il quale propone una revisione dell’art. 18 come contraltare ad un aumento dei contratti a tempo indeterminato.
La possibilità di riformare art. 18 L. 300/1970 è stata ed è tuttora al centro di un acceso dibattito politico e sindacale soprattutto in quanto permetterebbe una flessibilità anche in uscita dalle imprese, senza eccessive limitazioni riguardo al licenziamento individuale dei lavoratori. In questo senso è stata criticata la rigidità, da taluni ritenuta eccessiva, dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che come confermano molteplici sentenze della Suprema Corte di Cassazione, accorda quindi al lavoratore secundum legem la possibilità di uscire discrezionalmente dal rapporto. Le critiche sono andate a contestare la norma ove non consente al datore di lavoro la facoltà di optare per la risoluzione del rapporto mediante la corresponsione al prestatore d’una indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, lasciando al solo prestatore tale facoltà. Per le imprese dunque verrebbe meno l’obbligo del reintegro del lavoratore, mentre quest’ultimi beneficerebbero di una nuova politica, da associare ad un più incisivo sistema di sicurezza sociale, che favorendo i contratti a tempo indeterminato, diventati più convenienti per i datori di lavoro, possa contrastare il precariato. Si dovrebbe dunque arrivare ad una modernizzazione e armonizzazione del diritto del lavoro ove flessibilità non sia più sinonimo di incertezza e precarietà, cercando inoltre di sconfiggere la piaga del lavoro sommerso[8]. É d’uopo prevedere un allentamento dei vincoli alla regolamentazione del rapporto di lavoro subordinato e delle garanzie in uscita da esso, congiuntamente ad un sensibile rafforzamento delle protezione sul mercato del lavoro, cercando di cancellare anche le disuguaglianze territoriali, favorendo in questo modo la mobilità e occupabilità dei lavoratori,con conseguente aumento dell’occupazione.
Dunque una mobilità vista non come nemico del lavoratore ma come sinonimo di opportunità e crescita cercando di emulare realtà di altri paesi, tenendo ben presenti le peculiarità del sistema Italia ed i suoi limiti. Devono risultare sostenibili i lavori c.d. no standard che ora si collocano tra quello autonomo e quello subordinato, attraverso uno sviluppo di protezione sul mercato del lavoro che ad un’adeguata opera legislativa al fine di trasformali in rapporti a tempo indeterminato[9].
Sicuramente attuare politiche del lavoro in un paese grande e denso di problematiche come l’Italia non è un compito semplice, per questo motivo è, a nostro avviso, auspicabile un ulteriore intervento dell’Unione, che dovrebbe seguire da vicino il processo, magari emanando una nuova direttiva che cerchi di uniformare, se possibile in modo ancora più incisivo, le varie normative dei paesi membri. Il livello di integrazione europea è ora infatti molto alto e si è effettivamente creato un mercato comune del lavoro, il quale non potrà che beneficiare di regole comuni, le quali dovrebbero rendere più equilibrate possibili le normative in modo da impedire eccessivi trasferimenti verso quei paesi Ue dove la flessibilità è più alta ed i diritti garantiti minori e nei quali sia quindi più conveniente investire per le aziende ed allo stesso tempo arginare la fuga di lavoratori verso quei paesi in cui vengono, all’ombra di normative più favorevoli, siglati contratti di lavoro più convenienti.
Insomma urgono riforme strutturali a livello nazionale com’anche europeo, e non leggi pleonastiche e senza una vera efficacia, che riescano a sfruttare l’enorme risorsa, fin d’ora malamente utilizzata in Italia, delle donne, consentendone un’impiego nel mondo del lavoro superiore agli attuali quarantanove punti percentuali della forza lavoro attiva, attraverso il sostegno alle famiglie e all’investimento in day-care e strutture di asilo. Si auspica altresì che si investa nei giovani in quanto fonte principe di innovazione, cercando di sbloccare un mercato del lavoro allo stato attuale connaturato da una persistente immobilità, traente forza da una moltitudine di contratti precari scarsamente utilizzati e da altri, come quello a tempo determinato, caratterizzati da un elevato grado di incertezza e per questo pericolanti, essendo facilmente attuabile secondo casistica la riconversione in accordi a tempo indeterminato, comportando un enorme rischio e deterrente per le imprese, tenendo conto della pesante crisi che è in atto[10].
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[1] F. Carinci, T. Treu, Il diritto del lavoro, in UTET GIURIDICA, 2006
[2] 2R.C. Van Caenegem, I sistemi giuridici europei Il Mulino, 2003
[3] S. Riva, Il volume del diritto del lavoro, in SIMONE EDIZIONI GIURIDICHE, 2011
[4] F. Carinci, T. Treu, Il diritto del lavoro, in UTET GIURIDICA, 2006
[5] Libro verde della Commissione, del 22 novembre 2006, dal titolo Modernizzare il diritto del lavoro per affrontare le sfide del XXI secolo
[6] The Danish model of flexicurity, A paradise with some snakes, Departement of Political Science, University of Copenhagen, Denmark
[7] P. Ichino, Inchiesta sul lavoro. Perché non dobbiamo avere paura di una grande riforma, Mondadori, 2011
[8] S. Riva, Il volume del diritto del lavoro, in SIMONE EDIZIONI GIURIDICHE, 2011
[9] F. Santoni, IL DIRITTO DEL MERCATO DEL LAVORO, Quaderni de ”Il diritto del mercato del lavoro”, 2010
[10] M. Miscione, Metodi e contenuti del contratto collettivo, in Lav. giur., 2010