I decreti legislativi n. 300 e 303 del 1999 completano, attuando rispettivamente la riforma della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei singoli ministeri, un ciclo di rinnovamento iniziato nei primi anni novanta e teso ad una più ampia riforma dell’amministrazione centrale e periferica dello Stato. Le innovazioni introdotte con i predetti provvedimenti normativi sono tuttora in via di attuazione, essendo stata disposta l’entrata in vigore con decorrenza dalla prossima legislatura, pertanto le argomentazioni sinora addotte in ordine ai testi dei predetti decreti legislativi potranno essere confermate o smentite a seconda dell’impatto che la riforma in parola avrà sul sistema attualmente in vigore. La necessità di una revisione in chiave sistematica dell’intero assetto organizzativo ministeriale è apparsa negli anni improcrastinabile. Basti al riguardo considerare che l’unico riferimento normativo antecedente alle disposizioni normative in oggetto può rinvenirsi esclusivamente nella vetusta legge cavouriana del 23 Marzo 1853 n. 1843. Numerose problematiche afferenti il dato organizzativo per lunghi anni sono rimaste nell’ombra, salvo riaffiorare in sporadici progetti di riforma, che solo indirettamente ne prendevano cognizione e quasi mai fornivano valide soluzioni in merito. Eppure l’esigenza di una legge di principio che regolamentasse in maniera sistematica l’organizzazione ministeriale era stata avvertita sin dai primi anni successivi all’approvazione della Carta fondamentale. La legge ordinaria, anziché disciplinare principi generali entro cui fonti secondarie avrebbero potuto regolamentare gli aspetti precipui dei singoli ministeri, si è inoltrata in impervie e minuziose definizioni, contribuendo alla formazione di un sistema particolarmente rigido e frammentato, proprio perché modificabile esclusivamente con una fonte di pari rango, e creando, conseguentemente, sovrapposizioni di competenze nonché duplicazioni di funzioni, con un evidente ripercussione anche sul bilancio dello Stato. L’avere diversificato le fonti che disciplinano l’assetto organizzativo ministeriale costituisce punto di approdo ma anche di partenza della riforma in atto. Procedendo schematicamente, difatti, può osservarsi come accanto alla legge, alla quale è demandato il compito di determinare il numero dei ministeri nonché il numero massimo delle unità di primo livello, si affianca la fonte regolamentare, alla quale è affidato il compito di distribuire le attribuzioni fra i dipartimenti e le direzioni generali, mentre, infine, mediante decreto ministeriale possono ulteriormente assegnarsi competenze nell’ambito di uffici dirigenziali non generali. In questo contesto non possono che affermarsi perplessità di coerenza costituzionale in riferimento ad un assetto che demanda a fonti secondarie, e, nell’ultimo caso addirittura non regolamentari, l’organizzazione dei ministeri e di suoi rilevanti profili. Tale riflessione scaturisce dalla disposizione contenuta nell’art. 95 Cost., il quale affida alla legge il compito di provvedere alla determinazione del numero, delle attribuzioni e dell’organizzazione ministeriale. Né va, peraltro, sottaciuta l’ampiezza del contenuto della fonte regolamentare. Essa, difatti, dovrà raccogliere tutte le disposizioni relative al singolo dicastero. Ciò, se da un lato faciliterà le vie di accesso alla disciplina vigente, dall’altro comporterà l’esplicita abrogazione di tutte le disposizioni antecedenti non contenute in regolamento. Dal punto di vista formale, l’inversione di tendenza enucleatasi nel pensiero riformatore registra un graduale passaggio dall’utilizzo della legge agli schemi di legge delega – decreti legislativi. Agli inizi degli anni novanta, una prima legge delega, pur non riuscendo ad approdare ad un testo definitivo a causa dello scioglimento anticipato delle Camere, contribuirà alla formazione di alcune linee direttrici che verranno di seguito riprese nel documento di programmazione economica e finanziaria del 1996 e trasfuse nella successiva legge delega n. 59/97. La su citata legge merita un maggior approfondimento, in quanto essa può inquadrarsi nel più generale contesto della riforma della intera Pubblica Amministrazione, avente di mira lo scopo di operare un definitivo superamento della distinzione tra i cd. “rami alti” e “rami bassi” del sistema istituzionale. Con la stessa si ribadisce a chiare lettere il rango costituzionale a cui assurge l’ambito organizzativo dell’intera amministrazione, dato da cui si trae l’impressione che la riforma intenda incentrarsi non solo sull’amministrazione ma, più in generale, sulle istituzioni. Dall’analisi del testo di legge si coglie, in particolare, uno stretto ed interdipendente collegamento tra la riforma dell’organizzazione del governo, il trasferimento di funzioni e di compiti amministrativi conferiti alle autonomie locali e le misure attuanti la semplificazione amministrativa. Accogliendo numerose istanze di revisione dell’apparato ministeriale, la l. n. 59/97 si prefiggeva, in primo luogo, la razionalizzazione del sistema mediante diminuzione del numero dei ministeri, direttamente collegata alle esigenze di funzionalità del Consiglio dei ministri in qualità di organo collegiale. Ci si era, difatti, resi conto, che un numero elevato di soggetti capaci di esprimere il proprio consenso all’interno dei processi decisionali del Consiglio dei ministri, creava problemi di funzionalità che potevano essere risolti mediante riduzione dei dicasteri, mediante eliminazione delle duplicazioni di funzioni e di uffici e di sovrapposizioni di competenze venute in essere a causa della stratificazione delle leggi nel tempo. Altro chiaro intento che intende perseguire la citata legge delega è l’eliminazione, se pur graduale, del cd. modello ministeriale in favore del modello cd. dipartimentale. Gli strumenti attraverso i quali intende realizzare siffatto scopo si rinvengono, principalmente, in una più ampia applicazione del principio del decentramento, che comporti la rideterminazione delle funzioni affidate sia all’apparato centrale, in posizione intermedia tra gli organi a rilevanza comunitaria e le autonomie locali, che dell’apparato periferico, non più in posizione servente e dipendente dell’amministrazione centrale ma connotato di poteri, risorse e funzioni proprie. Passando all’attuazione della legge di delega in parola, di primo acchito può subito evidenziarsi come il legislatore delegato abbia costantemente privilegiato il profilo funzionale rispetto all’assetto propriamente organizzativo dell’apparato ministeriale, ritenendo più rispondente al dettato costituzionale un intervento di riordino sistematico, anche alla luce delle deludenti e sin troppo particolareggiate applicazioni di legge succedutesi negli anni precedenti. Pertanto, sotto il profilo funzionale, la rideterminazione dell’ambito di operatività dei singoli ministeri ha inteso privilegiare la responsabilità politica in relazione ad aree funzionali organiche piuttosto che reiterare un modello basato sulla distinzione per interessi settoriali. Sotto il profilo strutturale, invece, in attuazione del principio pluralistico organizzativo affermato con la legge di delega, il ministero viene suddiviso in due nuclei: l’uno comune ed immanente, costituito dal vertice politico, dagli apparati di supporto delle funzioni di indirizzo e direzione politica, nonché dalle unità di primo livello; l’altro a carattere variabile, da adattare alle esigenze precipue dei dicasteri, nel rispetto, però, di determinate tipologie definite dalla legge delega. In particolare, le strutture di primo livello possono configurarsi sia secondo il modello di struttura dipartimentale, con un limite massimo di 5 aree funzionali per ogni dicastero che intenda strutturarsi secondo siffatto modulo organizzativo, che secondo lo schema di direzione generale, ma in quest’ultimo caso vige l’obbligo di istituire presso tale struttura il segretario generale. I dipartimenti si sostanziano in strutture con una vasta area funzionale, essendo stati, difatti, conferiti ai medesimi poteri relativi all’organizzazione e alla gestione delle risorse umane, finanziarie ed organizzative per ogni dicastero di cui sono parte. Il legislatore delegato ha circoscritto il suo intervento con riguardo alle linee direttrici del modello di dipartimento, fissando, peraltro, i criteri che devono presiedere al riordino delle funzioni a cui essi sono preposti. Quest’ultimi sono stati individuati nei canoni dell’omogeneità, della complementarietà e dell’organicità. Ha preferito, invece, che i tratti specifici venissero definiti dalla normativa regolamentare; ciò al precipuo scopo di rendere più flessibile, ed al contempo più funzionale, la struttura rispetto alle differenti e concrete esigenze di ogni singolo apparato ministeriale. Il dipartimento così delineato è, quindi, connotato da numerosi elementi diversificanti ed innovativi, sia rispetto ai dipartimenti istituiti durante la fase della cd. regionalizzazione, che rispetto ai dipartimenti istituiti per circa vent’anni presso la Presidenza del Consiglio e posti sotto la titolarità dei ministri senza portafoglio. Dal punto di vista funzionale, il dipartimento è organizzato in modo da rispondere alle esigenze della cd. missione, ossia l’insieme di scopi generali afferenti ad un’unica materia, alla quale possono essere riferite ampie attribuzioni, da esercitare in maniera organica ed integrata. Inoltre, per specifica previsione normativa, vengono affidati alla medesima struttura anche i compiti di indirizzo e coordinamento delle unità di gestione in cui essi si articolano, per modo che l’apparato, assolvendo sia a compiti strumentali che finali, può considerarsi nel suo insieme tendenzialmente autosufficiente. Rilevanti appaiono, dunque, le divergenze con il modello di ministero strutturato per direzioni generali. Difatti, mentre quest’ultimo è diversificato al suo interno in strutture con funzioni strumentali e strutture con funzioni finali, il ministero per dipartimento potrà essere frazionato per non più di cinque aree alle quali corrisponderanno altrettanti dipartimenti. Le suddetta aree funzionali provvederanno alla realizzazione delle cd. “policies”, alle quali non verranno delegate solo funzioni strettamente strumentali. Quest’ultime, infatti, verranno attribuite ad uffici interni ai dipartimenti, non ricoprendo più alcuna rilevanza esterna, come invece accade per i ministeri strutturati per direzioni generali. E’ possibile, inoltre, differenziare ulteriormente la struttura ministeriale al suo interno, affiancando unità esterne al ministero denominate agenzie, apparati distinti dai dipartimenti, a cui vengono affidate funzioni di tipo tecnico-operativo. Esse operano al servizio delle amministrazioni pubbliche, comprese quelle regionali e locali, sono sottoposte ai controlli della Corte dei Conti nonché ai poteri di indirizzo politico e di vigilanza del ministro, così come delineati dalle modifiche apportate al riguardo dal d. lgs. n. 29/93. Pertanto, la distinzione tra dipartimenti ed agenzie risulta in linea con l’esigenza di predisporre strutture diversamente finalizzate: i primi, difatti, svolgono funzioni amministrative tradizionali, laddove i secondi sono preposti allo sviluppo di attività di carattere tecnico-operativo. L’impianto strutturale risulta, quindi, maggiormente irrigidito rispetto al passato, poiché, alla luce di quanto sinora illustrato, vigerà incompatibilità tra dipartimento ed istituzione del segretario generale, così come con le strutture dipartimentali non possono coesistere altre strutture di primo livello, e gli uffici diretti alla collaborazione del ministro, pur essendo stabiliti da quest’ultimo, non possono operare senza il controllo interno operato da un servizio appositamente istituito, ma siffatta rigidità strutturale non deve essere interpretata in senso negativo, dovendo, al contrario, essere direttamente collegata alla flessibilità delle norme disciplinanti l’organizzazione ministeriale, dato questo che pone in luce l’evidente accostamento del sistema così delineato al modello cd. per servizi, che già in passato, con il progetto di riforma Giannini – Barbera, si era tentato di introdurre nel nostro ordinamento, ma che aveva incontrato numerosi dissensi. Per quanto attiene alla responsabilità del ministro, anche a seguito del diverso disegno strutturale, della notevole riduzione del numero dei ministeri (da 18 si passa a 13), nonché dell’affidamento di compiti operativi in precedenza spettanti alla Presidenza del Consiglio, essa risulta correlata al settore in cui opera il ministero piuttosto che all’apparato oggettivamente inteso. La puntuale attuazione della predetta riforma pone in essere un nuovo assetto organizzativo dell’amministrazione centrale che mal si coordina con la disposizione contenuta al secondo comma dell’art. 95 Cost. inerente la responsabilità dei ministri. Ciò ha determinato l’esigenza di armonizzare le predette norme, istanza recepita mediante la formulazione di una proposta di riforma costituzionale che, per esser utilmente compresa, dovrà essere illustrata partendo da un breve accenno al contenuto dell’art. 95 della Costituzione. E’ noto che in tale disposizione costituzionale possono enuclearsi tre principi fondamentali: il principi di collegialità del governo, il principio di direzione del Presidente del Consiglio ed il principio della cd. responsabilità ministeriale, in forza del quale ogni ministro è responsabile degli atti del proprio dicastero. Ciò a cui tende la predetta proposta di revisione costituzionale è, per l’appunto, l’adeguamento del principio di responsabilità politica dei ministri di cui al secondo comma dell’art. 95 Cost. ai nuovi criteri di distribuzione della responsabilità basata sulla distinzione dei ruoli fra politica ed amministrazione. Si intende, difatti, sostituire alla generale responsabilità individuale dei ministeri per gli “atti dei propri dicasteri” una responsabilità per gli “indirizzi” e per gli “atti” che i ministri pongono in essere “nell’esercizio dei poteri di coordinamento e di direzione politica ed amministrativa”. Tale modifica avrebbe, pertanto, il pregio di definire con precisione l’ambito entro cui ricadrebbe la responsabilità politica dei singoli ministri, individuata, in primo luogo, nel predetto esercizio del potere di coordinamento, nonché di direzione politica ed amministrativa, che consentirebbe al ministro l’attuazione, nell’ambito delle strutture a cui egli è preposto, dell’indirizzo politico – amministrativo costituente specificazione della politica generale del governo, stabilita dal Consiglio dei Ministri, di cui il Presidente del Consiglio è chiamato mantenere l’unità. V’è, inoltre, da rilevare che la riforma attuata con il decreto legislativo n. 300 del 1999 intende distinguere due diversi tipi di responsabilità, connesse a due diverse figure soggettive di ministri. Il primo tipo di responsabilità, tradizionale, si configura allorquando un ministro è preposto ad un ministero. Il secondo tipo, introdotto dal decreto legislativo n. 300 del 1999, attiene, invece, alla preposizione di un ministro a specifiche strutture dicasteriali, ossia ai dipartimenti. Non resta che soffermarsi su un’ultima considerazione. La proposta di revisione costituzionale si incentra sulla sola disposizione contenuta al secondo comma dell’art. 95 della Costituzione, lasciando inalterata la disposizione di cui al precedente art. 92 della Carta fondamentale, il quale stabilisce la partecipazione di tutti i ministri al Consiglio dei Ministri. Qualora si dovesse attuare il disegno di revisione costituzionale in oggetto, il sistema governativo italiano risulterebbe in sintonia con le previsioni normative dettate in materia in altri ordinamenti stranieri, ma ciò comporterebbe l’accesso all’organo collegiale anche per i ministri preposti ad una struttura dipartimentale. Già in precedenza ci siamo soffermati sui riflessi negativi che un elevato numero di ministri ha comportato alla funzionalità del Consiglio dei ministri, e proprio il decreto legislativo n. 300 del 1999 ha inteso far fronte alle esigenze di regolarizzazione del predetto meccanismo accogliendo un’istanza, la riduzione del numero dei ministeri, più volte posta alla base delle precedenti proposte di riforma e sinora mai attuata. Pertanto, per non vanificare la razionalizzazione dell’intero apparato ministeriale operata dai decreti legislativi n. 300 e 303 del 1999, qualora all’art. 95 venissero apportate modifiche nel senso sopra indicato, si dovrebbe procedere ad un ristretto numero di nomine di ministri responsabili delle strutture dipartimentali. Diversamente l’introduzione degli stessi, anziché conferire maggiore elasticità al complesso sistema ministeriale, comporterebbe un irragionevole moltiplicarsi di aventi diritto alla formazione delle decisioni assunte in Consiglio, e le problematiche afferenti la funzionalità di quest’ultimo riaffiorerebbero, con il risultato di creare un modello ministeriale apparentemente idoneo al perseguimento dei fini istituzionali, ma intrinsecamente incoerente.
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