Con l’art. 118 comma 10 del Codice Appalti si prevede che la disciplina del subappalto si applichi anche “alle associazioni in partecipazione quando l’associante non intende eseguire direttamente le prestazioni assunte in appalto”.
La norma presuppone in via logica l’applicabilità dello schema associativo dell’associazione in partecipazione previsto dall’art.2549 del Codice civile.
“Con il contratto di associazione in partecipazione l’associante attribuisce all’associato una partecipazione agli utili della sua impresa o di uno o più affari verso il corrispettivo di un determinato apporto”
Come è noto lo schema in discorso era vietato espressamente dal comma 5 bis dell’art. 13 della legge 109/1994 ss.mm. che con una prescrizione tassativa (“ E’ vietata l’associazione in partecipazione”) escludeva tale modello associativo dal novero di quelli con cui un’impresa appaltatrice - nell’ambito della propria libertà di organizzazione - poteva scegliere di realizzare un’opera pubblica.
IL citato art. 118 comma 10, tuttavia, sembra porsi in contrasto con l’art. 37 comma 9 del Codice che riporta la norma già contenuta nel citato comma 5bis art.13 della “Merloni”.
A questo punto è utile ricostruire cronologicamente la vicenda delle disposizioni citate.
La norma desumibile dall’art. 118 comma 10 del Codice proviene dall’art. 18 comma 11 della legge 19 marzo 1990 n.55 che prevedeva l’applicazione della disciplina ivi stabilita in tema di subappalti anche per le associazioni in partecipazione “quando l’associante non intende eseguire direttamente le opere o i lavori assunti in appalto” .
Tale norma, come sembra evidente, presuppone che l’appaltatore possa essere costituito da un’associazione in partecipazione e l’associante affidi l’esecuzione dei lavori all’associato.
Il presupposto della legittimità dell’associazione in partecipazione si desume anche dall’art. 19 comma 3 della stessa legge citata, che vietava l’associazione anche in partecipazione o il raggruppamento di imprese che si fosse realizzato “in concomitanza o successivamente all’aggiudicazione della gara” lasciando supporre che il contratto di associazione formato prima della partecipazione alla gara sarebbe pienamente legittimo.
La ratio della norma era quella di evitare, fra l’altro, che imprese partecipanti alla stessa gara potessero costituire associazioni in concomitanza con la gara o dopo l’aggiudicazione con il rischio che tale meccanismo stimolasse la costituzione di “cartelli” o vanificasse la disciplina restrittiva del subappalto.
Infatti mentre nell’Unione Europea prevale l’idea che un’impresa possa decidere liberamente il modello organizzativo con cui esercitare la propria impresa e quindi realizzare un’opera pubblica, le limitazioni della normativa nazionale trovano la loro giustificazione nella opportunità di evitare ogni forma di speculazione sull'appalto che si affida alla impresa aggiudicataria nonché nella
opportunità di evitare o quanto meno contenere il rischio che si inseriscano nella esecuzione dell'appalto imprese legate alla criminalità organizzata.
Successivamente in sede di modifica della legge 109/1994 con l’art. 9 della cd.”Merloni ter” ( legge 18 novembre 1998 n.415) è stato introdotto il già citato comma 5 bis che vietava inderogabilmente l’adozione dello schema associativo in parola.
E’ evidente che nel momento in cui le norme citate sono state introdotte ciascuna nella sede materiae di competenza (una riguardo ai raggruppamenti tra imprese e l’altra nella disciplina del subappalto) non si è badato al coordinamento delle stesse.
D’altronde anche se la legge 55/1990 non era mai stata riformulata nei suoi artt. 18 comma 11 e 19 comma 3, era chiaro che in base al principio della lex posterior le citate disposizioni dovevano ritenersi implicitamente abrogate in parte qua dall’art.9 della legge 415/1998 (“Merloni ter”).
Ma nel momento in cui le due norme (art. 13 comma 5bis l.109/1994 ss.mm. e 18 comma 11 l. 55/1990) vengono introdotte nella stessa fonte normativa, la norma precedentemente abrogata riprende la sua efficacia nella nuova fonte (il decreto legislativo) determinandosi quella che a noi sembra una e vara e propria antinomia nel sistema.
Per l’interprete però si pone il problema concreto se l’associazione in partecipazione è ammessa oppure no come contratto associativo adottabile per un operatore economico che voglia partecipare a commesse pubbliche, tenendo altresì conto che la disciplina in parola si applica a tutte le tipologie di appalto ( lavori, forniture e servizi) e che quindi la questione non si limita al settore dei lavori pubblici.
Premesso che è quanto mai opportuno che il legislatore delegato in sede di decreti correttivi chiarisca la questione, è tuttavia possibile fare qualche considerazione sulla scelta interpretativa che attualmente sembra essere più corretta .
Innanzitutto occorre verificare la disciplina in proposito prevista dalla direttiva comunitaria 2004/18/CEE la quale all’art. 4 stabilisce che “ ai fini della presentazione di un’offerta o di una domanda di partecipazione le amministrazioni aggiudicatici non possono esigere che i raggruppamenti di operatori economici abbiano una forma giuridica specifica”. Stessa norma è contenuta nell’art. 11 della direttiva 2004/17/CEE concernente le procedure d’appalto nei cd settori speciali.
Conseguentemente stabilire un divieto di adozione di un determinato schema associativo ci sembra che sostanzialmente voglia dire in negativo esigere che l’operatore (non) abbia una determinata forma giuridica e ciò in violazione delle norme ora citate.
Il legislatore comunitario infatti coerentemente con la sua impostazione liberalizzatrice in materia vuole stabilire un principio di libertà di scelta riguardo all’organizzazione che l’impresa si voglia dare nella partecipazione alle gare per l’affidamento di commesse pubbliche.
Né alcuna limitazione di forma viene stabilita nella norma comunitaria specifica sul subappalto (art. 25 della direttiva 2004/18/CEE e art. 37 direttiva 2004/17/CEE)
Se è così, è ipotizzabile – anche in mancanza di un intervento del legislatore – la disapplicabilità della norma che prevede il divieto dell’associazione in partecipazione in quanto in contrasto con la norma dell’art. 4 della direttiva che, trattandosi di norma rivolta direttamente alle amministrazioni aggiudicatici, si può considerare norma self executing e quindi immediatamente applicabile.
E’ vero che la stessa disposizione più avanti prevede che “al raggruppamento selezionato può essere imposto di assumere una forma giuridica specifica una volta che gli sia stato aggiudicato l’appalto” e comunque “nella misura in cui tale trasformazione sia necessaria per la buona esecuzione dell’appalto”.
Tuttavia questa prescrizione fa riferimento al momento esecutivo del contratto e non in sede di partecipazione alla gara .
La norma dell’art. 37 comma 9 del Codice Appalti è una norma che si inquadra nell’ambito dei requisiti di partecipazione alle procedure di affidamento dei contratti. Ambito cui fa riferimento il divieto di esigere determinate forme giuridiche.
La possibilità di chiedere invece una determinata forma giuridica si riferisce al momento esecutivo del contratto ossia all’ambito di efficacia cui fa riferimento l’art. 118 comma 10 (subappalto).
Ma proprio in quest’ambito abbiamo visto che la norma codicistica presuppone la possibilità di adozione dello schema dell’associazione in partecipazione.
In conclusione, nel ribadire la necessità che il legislatore ponga rimedio a questo che sembra essere un mero difetto di coordinazione connesso con l’attività di ricezione nel codice delle varie norme contenute nelle molteplici fonti normative, tuttavia si ritiene tale difetto già ora rimediabile da parte dell’interprete con lo strumento della disapplicazione in quanto contrastante con la norma comunitaria costituente applicazione del principio della libertà di impresa, con la conseguenza non di poco conto dell’ammissibilità alle gare di operatori economici che abbiano adottato l’associazione in partecipazione quale forma giuridica di collaborazione tra imprese.