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Questione di legittimità costituzionale, in relazione all’art. 3 della Costituzione, dell'art. 1 del decreto legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equità) |
L’art. 113, secondo comma, c.p.c. - nella sua formulazione precedente alla riforma apportata dall'art. 1 del decreto legge 8 febbraio 2003, n. 18, convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003 n. 63 (riforma, peraltro, recepita integralmente dal nuovo codice di procedura civile) - recitava che: <>. A seguito del citato intervento modificativo del legislatore, tuttavia, la formulazione dell’art. 113, secondo comma, risulta essere la seguente: <>. Il secondo periodo del secondo comma dell’art. 113 del codice di procedura civile, contiene, quindi, una norma speciale, in virtù della quale il giudice di pace decide secondo diritto le cause derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'articolo 1342 c.c., derogando così alla norma generale, contenuta nel primo periodo del secondo comma del citato art. 113, in base alla quale tutte le altre cause attribuite al giudice di pace, di valore inferiore ad € 1.100,00, sono decise secondo equità. La motivazione posta a base della suddetta deroga è espressa nel preambolo del decreto legge 8 febbraio 2003, n. 18, che si riporta qui di seguito: <>. Il legislatore, quindi, ritiene che, imponendo ai singoli giudici di pace di decidere secondo diritto controversie molto probabilmente analoghe (in quanto derivanti da identiche tipologie contrattuali), si eviterebbe il rischio di una difformità tra pronunce che, invece, ad avviso della legge, si potrebbe verificare laddove si desse la possibilità ai citati giudici di deciderle secondo equità. Al riguardo si osserva, tuttavia, che l’uniformità delle pronunce riferite a questioni identiche non può essere affatto ottenuta obbligando i giudici a decidere secondo diritto, anziché secondo equità. Proprio in applicazione di un principio del nostro diritto, infatti, ogni giudice è libero di dissentire dalla decisione emessa anteriormente da un altro giudice in un caso analogo. Si allude al principio di non vincolatività del precedente giurisprudenziale, dettato implicitamente dall’art. 1 delle disposizioni sulla legge in generale (approvate, preliminarmente al codice civile, con regio decreto n. 262/1942), nel quale articolo sono tassativamente elencate le fonti del diritto, tra cui non rientra il precedente giurisprudenziale, ma, in ordine di importanza, rientrano solo le leggi, i regolamenti ed, infine, gli usi. Ne consegue che, nel nostro ordinamento, a differenza dal sistema anglosassone, ogni giudice può anche non condividere eventuali pronunce emesse anteriormente, secondo diritto, da altri giudici in ordine a questioni identiche, senza che ciò costituisca un motivo autonomo di impugnazione, quand’anche i precedenti provengano, addirittura, da giudici di grado superiore. Pertanto, la norma contenuta nell’art. 1, decreto legge 18/2003, non è assolutamente idonea a raggiungere lo scopo che essa si prefigge, vale a dire quello di evitare la difformità di pronunce riferite ad identiche tipologie contrattuali, in quanto, in virtù del menzionato principio di non vincolatività del precedente giurisprudenziale - non modificato dal citato decreto e non suscettibile di alcuna deroga - i singoli giudici di pace, sebbene siano tenuti ad attenersi non all’equità ma ai principi di diritto, possono comunque risolvere, in modo diverso l’uno dall’altro, le controversie derivanti da un’unica tipologia di contratto. E’ pur vero che la Corte di Cassazione svolge, tra l’altro, anche la funzione nomofilattica, diretta ad assicurare un’interpretazione uniforme del diritto, ma è altrettanto vero che l’impugnato art. 1, decreto legge n. 18/2003 è volto a garantire l’uniformità delle sentenze non soltanto in grado di Cassazione, ma già in primo grado, innanzi ai giudici di pace, il che, tuttavia, non può essere affatto conseguito nel modo previsto dalla citata norma, per i motivi esposti in precedenza. Ed infatti, esaminando, ad esempio, le controversie sorte innanzi ai giudici di pace a seguito del black out del 28 settembre 2003, si osserva che tra le pronunce dei singoli giudici sussiste un’assoluta difformità di orientamenti, talvolta anche all’interno dello stesso Ufficio giudiziario, alcuni ritenendo fondate le pretese degli utenti, altri ritenendo non responsabile l’Enel distribuzione s.p.a., come si evince dall’analisi dei fascicoli prodotti dalle parti. In conclusione, l'art. 1 del decreto legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equità), convertito, con modificazioni, nella legge 7 aprile 2003, n. 63, sostitutivo dell'art. 113, secondo comma, codice di procedura civile, non essendo affatto idoneo a perseguire lo scopo per il quale è stato introdotto, è illegittimo per contrasto con il principio di ragionevolezza delle leggi sancito dall’art. 3 della Costituzione, con conseguente necessità che la Corte Costituzionale lo dichiari incostituzionale nella parte in cui esso esclude il necessario giudizio di equità per il giudice di pace nelle controversie, di valore inferiore ad € 1.100,00, derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'articolo 1342 del codice civile. |
Autore: Roberto Napolitano |
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