Con il decreto legislativo n.274 del 28 agosto 2000, che attua la legge delega del 24 novembre 1999 n.468, si è data, finalmente, competenza penale al Giudice di Pace, recependo in pieno il lavoro svolto da una commissione di studio, istituita dal Ministro di Grazia e Giustizia, presieduta dal Prof. Tullio Padovani.
Questo neo giudice onorario è frutto di una serie di studi, interventi, elaborazioni che si sono concretizzate in provvedimenti già nei primi anni novanta, sollecitati da pressioni dell’opinione pubblica, da esigenze organizzative e di riordino della giustizia, che hanno origine nei lontani primi anni settanta. Infatti, in quegli anni, ricordati come gli “anni di piombo” per le stragi di matrice terroristica, forte era l’esigenza, e con esigenza si ritenga di utilizzare un termine ad hoc, di una maggiore partecipazione popolare nell’amministrazione della giustizia. Cioè, si volevano ridurre, dimezzare le distanze, tra le vicende degli uomini comuni ed il potere dei giudici. Si pensò quindi di creare la figura di un nuovo giudice-uomo comune, posto a metà strada tra i due soggetti: il Giudice di Pace per l’appunto. Si voleva un Salomone quindi non proprio tecnico, bensì equo ed efficace, un giudice della terza età (come si desume dalla versione originaria della l. n.374 del 21 novembre 1991), privo di una significativa competenza giuridica.
Negli ultimi tempi, sia il clima di netta contrapposizione e polemica tra il mondo politico e la giustizia, sia la voglia d’avere processi più equi e rapidi, sono stati determinanti per l’attribuzione di competenza a questo nuovo magistrato. Infatti, le critiche che ci giungono dall’Europa, con le numerose condanne causa la lungaggine dei nostri processi, oltre a sollecitare nuove ed importanti riforme della giustizia (vedi la legge sul giusto processo (1)) hanno sottolineato come fosse indispensabile un nuovo tipo di processo, più snello, dinamico, mirante in via principale alla pacificazione delle parti, proceduralmente più semplice e più comprensibile da parte di chi lo vive o lo subisce. Si voleva, e si vuole, dare una nuova immagine al procedimento penale, affinché non sia più visto come oscura macchina che trita, con i suoi incomprensibili ingranaggi, il malcapitato o lo sprovveduto che v’incappa.
Al Giudice di Pace è, oggi, affidato il compito di soddisfare antiche esigenze e di rispondere a nuove richieste, dettate anche dall’affacciarsi del nostro Paese su nuovi scenari, che preludono confronti più ampi e qualificanti, quali sono quelli dettati da raffronti con i sistemi di giustizia degli altri Stati Europei.
E’ altresì, anche affidato il compito di rendere, pur se nel limitato contesto della sua competenza, il mondo della giustizia più trasparente, e di far comprendere, come l’operato dei giudicanti sia naturale frutto d’umani convincimenti, i quali devono esser compresi nel loro formarsi, e non esser visti come risultati d’indecifrabili equazioni, cui solo i pochi tecnici-matematici del diritto possono accedere.
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Con il presente scritto si è avuta la pretesa di affrontare le problematiche che l’introduzione di un nuovo organo giurisdizionale può comportare. Problematiche, che nel particolare, riguardano essenzialmente la fase procedimentale del giudizio innanzi al Giudice di Pace Penale.
Con fase procedimentale si è inteso indicare quella inerente le indagini preliminari, con riguardo alle singole attività che, in tale periodo processuale, gli organi inquirenti svolgono.
Si sono voluti individuare i differenti soggetti operanti, la loro competenza e giurisdizione. Si è fatto un distinguo tra l’attività investigativa e quella di indagine operata dalla P.G. Si è dato risalto al ruolo del difensore quale soggetto investigante al pari, o quasi, degli organi istituzionalmente delegati al compito di indagine.
Il sottoscritto, pertanto, servendosi dell’opera di illustri rappresentanti del mondo accademico, di taluni articoli scritti od opinioni espresse da avvocati di chiara fama, ha cercato di dirimere propri dubbi e proprie lacune cognitive, avendo la speranza, nel contempo, di poter fornire utili informazioni a chi, come me, affronta titubante questa nuova realtà processuale.
IL GIUDICE DI PACE PENALE: LA FASE DEL PROCEDIMENTO.SOGGETTI, GIURISDIZIONE, COMPETENZA.
Con procedimento davanti al Giudice di Pace, si vuole intendere l’insieme della fase processuale e della fase procedimentale.
Quest’ultima, la fase procedimentale, è la fase delle indagini preliminari che anche innanzi al Giudice di Pace conserva un forte connotato inquisitoriale. Infatti, ruolo principale è quello del Pubblico Ministero, ufficio ricoperto, attraverso i suoi sostituti, dal Procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario, corrispondente grosso modo al territorio della provincia, ha sede il Giudice di Pace (art.1 D. L. S., n. 274, del 2000). Incidentalmente è previsto l’intervento del Giudice di Pace, non quello dibattimentale ma quello individuato dall’art.5/2 D. L. S., n. 274, del 2000 (Giudice di Pace circondariale), con competenza ad acta, limitata al singolo provvedimento eventualmente richiesto. Questo Giudice di Pace delle indagini preliminari, è individuato nel Giudice di Pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente competente. Si è voluto attribuire la competenza, per tali interventi incidentali nel procedimento, a coloro che appartengono agli uffici giurisdizionalmente più importanti, almeno per ciò che concerne l’estensione territoriale della loro competenza. Questo presumendo che, impegnando gli uffici più grandi, vi siano organi adeguati ed in grado di ridurre i rischi d’incompatibilità. Tale criterio individuativo è previsto non solo per l’archiviazione, ma per tutte quella serie di provvedimenti che nel processo ordinario sono attribuiti al giudice delle indagini preliminari (art.19 D. L. S., n. 274, del 2000). Bisogna anche tener presente che, nelle indagini preliminari del procedimento davanti al Giudice di Pace, il giudice ha un ruolo meno delicato rispetto a quello del G.I.P., sia perché manca l’udienza preliminare, con i suoi epiloghi alternativi al giudizio, sia perché non trova applicazione l’incidente probatorio (2)(art.392 c.p.p.), e sia perché non vi sono misure cautelari personali da disporre (vi sono invece le reali).
Logicamente, così come per il processo ordinario (art.34/2bis), anche per quello innanzi al Giudice di Pace, vi è incompatibilità per l’attività in dibattimento del giudice che ha svolto un ruolo in fase d’indagine.
L’attività del Giudice di Pace è disciplinata oltre che dalle norme del decreto 274, del 2000, anche dal richiamo a norme del codice di procedura penale, e dalle relative norme d’attuazione e coordinamento, in quanto applicabili.
L’esercizio d’alcuni istituti è stato escluso, perché non conciliabile con il procedimento innanzi al Giudice di Pace. Tali istituti incompatibili sono: l’incidente probatorio; la proroga delle indagini, in quanto nel decreto è previsto analogo istituto; l’arresto in flagranza; il fermo d’indiziato di delitto; le misure cautelari personali e quindi il giudizio direttissimo, che l’applicazione di tali misure presume; i riti alternativi quali il giudizio immediato, che non si concilia con l’attività del Giudice di Pace concernente reati e conseguenti sanzioni di lieve entità; il decreto penale di condanna, caratteristica azione di giudizio inaudita altera parte e quindi contraria all’attività del nostro giudice, per l’appunto di pace, che in primis mira alla conciliazione delle parti; il patteggiamento della pena, perché non tutela le ragioni della parte offesa e non produce effetti civili, ponendosi quindi contro le prerogative del procedimento in oggetto; ed infine l’udienza preliminare, in quanto non confacente ad un rito semplice e scarno qual è quello davanti al Giudice di Pace.
Il dovere a favorire la conciliazione tra le parti, è previsto nel comma 2 dell’art.2 D.L.S., n. 274, del 2000, ed è il principale obiettivo della giurisdizione penale affidata a questo giudice che deve, principalmente, svolgere un ruolo attivo di mediatore nel conflitto tra le parti. Principio conciliativo presente, per i reati perseguibili a querela nell’art.29, comma 4, D. L. S., n. 274, del 2000, dove il ruolo del magistrato pacificatore è ulteriormente sottolineato, dalla possibilità di rinviare l’udienza di comparizione, per un periodo non superiore ai due mesi, qualora ciò sia utile per favorire la conciliazione. E’ anche previsto che, nella sua azione mediatrice, il Giudice di Pace si possa avvalere anche dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private, presenti sul territorio.
La preminente funzione conciliativa dell’azione giurisdizionale di questo giudice, si evince anche dalla garanzia, riconosciuta alle parti nell’ultimo periodo dell’art.29, di non veder utilizzate, ai fini della deliberazione, le ammissioni e le reciproche concessioni date per un’eventuale pacificazione, nel caso di fallimento del tentativo di conciliazione. Garanzie essenziali, senza le quali l’azione di pacificazione del giudice sarebbe destinata a certo fallimento.
L’attribuzione di una competenza penale per materia al Giudice di pace, è indice ulteriore di chiarimento della sua particolare natura e connotazione somatica.Gli è, infatti, attribuita giurisdizione su reati di facile accertamento, che mirano a valorizzare le sue funzioni conciliative (3), reati nati da microconflittualità individuali d’ambito codicistico (4), fatti cioè che producono effetti rimovibili. L’interesse della collettività per il perseguimento dei colpevoli per questi reati, è stato ritenuto dal legislatore delegato, un interesse mitigato rispetto ad esempio a quello, per i delitti e per le contravvenzioni, la cui competenza è lasciata ai magistrati togati. Un interesse che può essere ben soddisfatto sia dal raggiungimento di una pacificazione delle parti, o che comunque richieda accertamenti ed istruzioni “lievi”.
Il locus commissivi delicti indica qual è la competenza territoriale del Giudice di Pace (5, comma 1, D. L. S., n. 274, del 2000). Competenza indicata dalla sede del tribunale circondariale per il Giudice di Pace che, in fase d’indagine preliminare, svolge la funzione di G.I.P. (5/2). Ricordiamo che, in richiamo all’art.34/2bis c.p.p., chi svolge attività di giudice in fase d’indagine preliminare non può, pena l’incompatibilità, partecipare al giudizio. Nei casi di competenza per materia, determinata dalla connessione (art.6, d.lgs. 28/08/200, n.274), è ritenuto competente sempre lo judex superior rispetto al Giudice di Pace. E’ esclusa la connessione tra procedimenti del giudice di pace e procedimenti di giudici speciali.
Unica ipotesi di connessione prevista (art. 6, comma 1, D. L. S., n. 274, del 2000), è quella data dall’unicità dell’azione od omissione, che evidenzia l’opportunità del simultaneus processo. E’ utile ricordare che, la competenza per connessione opera quando vi è un “collegamento” tra un procedimento principale (attraente), ed uno o più procedimenti secondari (attratti); il procedimento secondario diventa di competenza d’altro giudice-ufficio diverso per territorio, materia o per entrambi. Nel caso del Giudice di Pace, la competenza per materia determinata da connessione, è stata limitata ad alcuni casi proprio per salvaguardare l’essenzialità del procedimento.
La connessione davanti al Giudice di Pace, prevista dall’art.7, D. L. S., n. 274, del 2000, riprende quanto espresso nell’art. 12 del c.p.p.. Restano esclusi i casi individuati nella lettera c) dello stesso art.12 c.p.p., ed il caso del reato continuato ex art.81 c.p.p. previsto dalla seconda parte della lettera b) (indicato invece nei casi di riunione ex art. 9, D. L. S., n. 274, del 2000). Tal esclusione è stata voluta per evitare complicazioni e lungaggini incompatibili con le esigenze di speditezza e semplificazione che debbono caratterizzare il procedimento davanti al Giudice di Pace. Se i diversi fatti, in rapporto di continuazione, fossero giudicati da più giudici, la pena potrebbe comunque essere commisurata ai sensi dell’art. 81 c.p. (aumento sino al triplo per la pena più grave), da parte del giudice dell’esecuzione (671 c.p.p.) (5).
La competenza per territorio, sempre nei casi di connessione, è individuata dall’art.8, D. L. S., n. 274, del 2000. Criterio individuante il Giudice di Pace competente è quello del luogo dove è stato commesso il primo reato. Se ciò non è possibile, la competenza apparterrà al Giudice di Pace del luogo in cui è iniziato il primo dei procedimenti connessi. Lo schema individuativo della competenza previsto dall’art. 16 c.p.p. non è stato recepito dal decreto legislativo n. 274, del 2000. Infatti, l’art. 8 indica solo un passe partout cronologico per individuare il giudice competente; questo anche perché non vi è distinzione, davanti al Giudice di Pace, per le contravvenzioni ed i delitti (art.17 c.p.).
La riunione dei processi risponde a quelle esigenze d’economicità che caratterizzano il processo che stiamo trattando. La riunione non altera la competenza né l’attribuzione, in quanto deve avvenire innanzi allo stesso giudice. Suoi presupposti applicativi sono l’identità subiettiva del giudice (o P.M. nella riunione pre-processuale);l’identità procedurale, cioè i procedimenti devono avere identità di fase e/o di grado di giudizio; identità di competenza per materia, territorio e connessione dello stesso giudice; utilità economica della riunione.
L’art.9, come il suo omologo art.17 c.p.p., lascia alla discrezionale valutazione del giudice, nel rispetto della rapida definizione dei processi, la facoltà di riunire o no gli stessi. E tale facoltà gli è concessa per alcuni casi individuati nel comma 2, tra i quali vi è anche quello previsto dall’art.81, comma 2, c.p. (reato continuato). Se a riunione avvenuta, si evidenzia che la stessa pregiudica il tentativo di conciliazione o la rapida definizione di alcuni tra i processi riuniti, il giudice prima della udienza di comparizione e, comunque, non oltre la dichiarazione d’apertura del dibattimento, può ordinare la separazione dei processi.
L’astensione consiste nella richiesta di sostituzione con altro magistrato del proprio ufficio che il giudice rivolge all’autorità giudiziaria competente a decidere (art.36 e 37 c.p.p.). L’art.10 comma 1, D. L. S., n. 274, del 2000, indica il presidente del tribunale come colui preposto a decidere sulla dichiarazione d’astensione del Giudice di Pace. I motivi per cui è chiesta l’astensione, prevista anche per il P.M., sono individuati nelle gravi ragioni di convenienza lasciate alla sensibilità deontologica del magistrato. Sono gli stessi motivi che possono esser fatti valere con un’eventuale richiesta di ricusazione di una delle parti (e cioè, quando si ritiene lesa l’imparzialità dell’organo giudicante. La ricusazione non è prevista per il P.M.). Il magistrato dopo la richiesta d’astensione, non può più compiere alcun atto nel procedimento, pena l’inefficacia dell’atto stesso. Sulla ricusazione del Giudice di Pace, ripulsa dello judex suspectus ad opera di una parte processuale e mirante alla sua sostituzione, decide la Corte d’Appello. La sostituzione avviene con altro giudice dello stesso ufficio del primo. Qualora ciò non sia possibile, la Corte o il Tribunale rimette il procedimento al Giudice di Pace dell’ufficio più vicino (art. 10, comma 4, D. L. S., n. 274, del 2000).
IL GIUDICE DI PACE PENALE: LA FASE DEL PROCEDIMENTO.INDAGINI PRELIMINARI
Le indagini preliminari sono trattate nel capo II del decreto legislativo n.274 del 28 agosto 2000.
Il primo articolo di tale capo (art.11), disciplina come devono esser compiute le indagini ad opera della Polizia Giudiziaria. Tale attività d’indagine è funzionale all’assolvimento dell’obbligo, per la P.G., di riferire la notizia di reato.
Rispetto a quanto previsto dall’art.347 c.p.p., si ha l’attribuzione di una nuova funzione alla Polizia Giudiziaria nel momento in cui acquisisce la notizia di reato. Un evento assurge a notizia criminis quando possiede almeno gli elementi minimi percepibili per un fatto reato, idoneo a giustificare l’inizio delle indagini preliminari o l’esercizio dell’azione penale (6).
La Polizia Giudiziaria, nel procedimento ordinario, svolge il ruolo di filtro tra l’acquisizione della notizia di un fatto, l’eventuale reato, ed il P.M. cui comunicarla. Tale filtro, è comunque un filtro a maglie larghe, nel senso che è compiuto un accertamento che dia solidità al semplice sospetto di criminosità, e che individui elementi di un reato. Prima della modifica dell’art. 347, c.p.p., (introdotta con il decreto legge n.306, del 8 giugno 1992, convertito dalla legge n.356 del 1992), la P.G. doveva comunicare, nel termine di 48 ore dall’acquisizione, la notizia di reato al P.M., il quale era obbligato ad inscriverla immediatamente (art. 335 c.p.p.) nell’apposito registro. Fase importante perché da quel momento decorrono una serie di termini inderogabili, come la richiesta di giudizio immediato ( 90 gg.) o i tempi utili per il compimento dell’attività d’indagine.
Oggi l’art.347, c.p.p., non prevede più il termine di 48 ore, ma parla d’immediatezza, quindi di tempestività affidata alla valutazione discrezionale dell’agente.
La modifica della previsione di questi tempi, è stata voluta proprio per stringere le maglie di quel filtro prima citato. Infatti, prima della riforma del ’92, per il rispetto dell’obbligo delle 48 ore, si versavano grandi quantità d’informative negli uffici della procura che comportavano enormi impegni, che ritardavano lo svolgimento delle indagini, quasi mai svolte d’iniziativa dalla P.G..
Nel procedimento innanzi al Giudice di Pace, l’art.11 D. L. S., n. 274, del 2000, l’attività della P.G. si discosta, in parte, da quella prevista nell’art. 347, c.p.p.. Infatti, è riconosciuta alla Polizia Giudiziaria la possibilità di compiere un’autonoma e completa attività d’indagine non limitata soltanto all’espletamento degli atti urgenti o ad una prima informativa al P.M. sulla notizia di reato.
L’autonomia investigativa della P.G. è, in questa fase, più ampia. Il P.M. svolge un ruolo marginale ed eventuale. Infatti, alla Procura si deve ricorrere per la richiesta d’autorizzazione al compimento di particolari atti “garantiti”, o per accertamenti irripetibili. Il P.M. può autorizzare la richiesta che giunga dall’indagante. Autorizzazione che non presume una valutazione dell’attività investigativa fino a quel momento compiuta, ma che si limita ad una verifica sull’opportunità del compimento degli atti richiesti. Autorizzazione mirante a rimuovere un ostacolo giuridico per il proficuo svolgimento delle indagini. La P.G. dovrà comunque motivare la richiesta, e potrà portare a conoscenza del P.M. i risultati provvisori dell’attività svolta. Il P.M. avrà varie opportunità: autorizzare il compimento degli atti richiesti, o svolgere personalmente tali atti, o avocando a se le indagini, o non autorizzando alla richiesta, oppure più semplicemente, impartendo direttive per l’ulteriore corso delle investigazioni. Analogamente provvede se è richiesta l’autorizzazione al compimento di perquisizioni e sequestri nei casi in cui, la Polizia Giudiziaria non può procedervi di propria iniziativa.
Le indagini della P.G. hanno una durata massima di 4 mesi dal giorno in cui la notizia è stata acquisita. Questo termine ha carattere ordinatorio. La sua violazione comporta unicamente sanzioni disciplinari e talvolta penali per il trasgressore.
Alla fine dell’attività investigativa, quando la notizia di reato risulta fondata, la P.G. redige una relazione nella quale in forma chiara e precisa enuncia il fatto, indica gli articoli di legge che si assumono violati e richiede al P.M. l’autorizzazione a disporre la comparizione della persona sottoposta ad indagini davanti al Giudice di Pace.
Sulle direttive prima menzionate, è utile fare un chiarimento.
L’art.12 del D.L.S. n. 274, del 2000, ci dice che se la notizia è appresa direttamente dal P.M., o la riceve da pubblici ufficiali incaricati di pubblico servizio (artt. 331 e 334 c.p.p.), la trasmette alla Polizia Giudiziaria perché proceda ai sensi dell’art.11, impartendo, se necessario, le direttive.
Quindi il P.M. può orientare l’attività d’indagine soltanto quando la notizia di reato giunge alla P.G. da lui; od anche, quando è la P.G. a richiedere un suo intervento per autorizzare il compimento di un atto. Nel caso in cui la notizia sia acquisita direttamente dalla Polizia Giudiziaria, e questa durante le indagini non ha necessità di compiere alcun atto autorizzato, il P.M., non conoscendo il fatto, non può impartire direttive, realizzandosi così la piena ed autonoma gestione delle indagini da parte della P.G..
Nella relazione finale, ex art. 11, comma 2, D. L. S., n. 274, del 2000, la Polizia Giudiziaria deve indicare il giorno e l’ora in cui ha acquisito la notizia di reato (art.11, comma 3), utile perché, da quel momento, decorrono i termini per il compimento dell’indagini (4 mesi).
La relazione è un’ipotesi d’imputazione.
Quando giunge nella cancelleria della Procura, il P.M: iscrive la notizia di reato nel registro. Vi può procedere anche prima di aver ricevuto la relazione, solo nel caso in cui svolga personalmente l’atto d’indagine. In tal caso l’iscrizione deve essere antecedente a tale svolgimento.
Secondo taluni, l’iscrizione della notizia di reato deve compiersi nel rispetto delle disposizioni contenute nell’art. 335 c.p.p., e cioè il P.M. provvede alla iscrizione ogni qualvolta, prima di aver ricevuto la relazione, ne abbia cognizione.
Ma tale applicazione non risponde al meccanismo di funzionamento descritto nel decreto legislativo n. 274, del 2000. Infatti, dall’avvenuta iscrizione decorrono nuovi termini d’indagine di 4 mesi concessi al P.M. e prorogabili, nel massimo, d’altri 2 mesi per i casi di particolare complessità. L’attività compiuta in questa fase dal P.M., e solo questa, costituisce la fase delle indagini preliminari.
La fase antecedente, compiuta dalla Polizia Giudiziaria, rappresenta un’attività investigativa necessaria per la ricostruzione del fatto e per l’individuazione del colpevole. Essa non è preliminare al giudizio, in quanto solo l’attività riconducibili al Pubblico Ministero, possono essere preliminari alla fase processuale.
Abbiamo già detto, quali sono i termini di indagine riconosciuti al P.M. (4 mesi), e quale proroga per essi può essere concessa (2 mesi al massimo). Per quest’ultima, il Pubblico Ministero chiede autorizzazione al Giudice di Pace circondariale (svolgente il ruolo di G.I.P. ex art.5/2 d.lgs. 274/2000), il quale se ritiene non sussistenti le ragioni della richiesta, entro 5 gg. dalla stessa dichiara la chiusura delle indagini, ovvero riduce il termine di proroga indicato dal Pubblico Ministero.
Gli atti compiuti dopo tali scadenze non possono essere utilizzati e quindi non entrano nel giudizio. Se sono svolte attività d’indagine dopo la presentazione della richiesta di proroga e prima della comunicazione della decisione del Giudice di Pace circondariale (art.5, comma2, D. L. S., n. 274, del 2000), esse sono valide sempre che, nel caso di provvedimento negativo, non siano successive alla data di scadenza del termine di 4 mesi dalla avvenuta iscrizione della notizia di reato.
I termini di indagine innanzi al Giudice di Pace, possono essere prorogati una ed una sola volta (nel massimo di 2 mesi). Sono molti brevi rispetto a quelli riconosciuti nel giudizio ordinario, ma ciò è dato anche dalle tipologia di reato lievi devolute alla competenza di questo giudice.
IL GIUDICE DI PACE PENALE: LA FASE DEL PROCEDIMENTO.INVESTIGAZIONI ED INDAGINI DELLA POLIZIA GIUDIZIARIA
L’attività di investigazione autonoma o d’iniziativa della Polizia Giudiziaria, è un’attività che taluni non fanno rientrare nel più ampio concetto di indagine.
Secondi questi studiosi, vi è distinzione tra attività di indagine ed attività investigativa. Infatti, con investigazioni si intendono tutte quelle azioni di raccolta di informazioni che devono spingere la Polizia Giudiziaria ha comunicare la notizia al Pubblico Ministero, ex art. 347, c.p.p.. E’ quindi quella azione che è esterna ed antecedente alla comunicazione alla Autorità Giudiziaria.
Nel procedimento ordinario, è di estensione limitatissima, in quanto lo stesso art. 347, c.p.p., impone alla P.G. di riferire al P.M., immediatamente, la notizia di reato (art.330, c.p.p.). Da questo momento, l’attività investigativa assurge a strumento di una più ampia attività cognitiva degli elementi di reato, che è l’attività di indagine.
Nel procedimento innanzi al Giudice di Pace, l’art.11, D. L. S., n. 274, del 2000, parla di attività di indagine della P.G., non menzionando mai il termine investigazione.
Abbiamo visto come in tal procedimento la Polizia Giudiziaria può svolgere la propria attività anche senza l’intervento del P.M. e senza alcun obbligo di comunicazione immediata della notizia di reato. Tale attività, indicata come indagine, può da sola essere sufficiente per il P.M. nella richiesta di giudizio.
Infatti, il Pubblico Ministero può confermare l’ipotesi di imputazione indicata nella relazione della P.G. ex art. 11, del D. L. S., n. 274, del 2000, autorizzando la citazione dell’imputato. Secondo la corrente di pensiero sin qui esposta, ciò equivale ad un salto di qualità della mera fase investigativa della Polizia Giudiziaria, a fase di indagine vera e propria. Salto che è uno dei pilastri portanti del nuovo processo innanzi al Giudice di Pace.
Quindi, nel procedimento ordinario la fase investigativa autonoma della Polizia Giudiziaria, è assai ristretta ed è immediatamente antecedente alla comunicazione al Pubblico Ministero (art.347 c.p.p.). Innanzi al Giudice di Pace, la fase investigativa può avere un’estensione temporale al massimo di 4 mesi (art.11/1 d.lgs. 274/2000), ma assurge a ruolo di indagine, qualora sia unico sostegno dell’accusa nel caso in cui, il Pubblico Ministero non ritenga necessarie ulteriori indagini.
Partendo da tale premessa, possiamo operare una distinzione tra l’attività di indagine diretta e indiretta.
Con attività di indagine diretta, si intende l’insieme di quegli atti che si svolgono immediatamente su situazioni o su cose, come l’acquisizione di documenti, le perquisizioni, oltre che l’attività destinate alla conservazione delle tracce di reato o dello stato dei luoghi.
Compongono invece, un’attività di indagine indiretta ad esempio, l’assunzione di informazioni, di notizie pertinenti ed utili per le indagini; cioè quelle attività che si attuano mediante l’utilizzo di persone.
L’attività diretta la si può rappresentare come la polpa dell’attività di indagine, posta a contatto con il nocciolo, il centro del frutto, che è la verità del fatto. L’attività indiretta invece, la si può rappresentare come la scorsa del frutto, od anche, come l’aurea intorno alla meccanica, all’azione dei fatti di reato.
Gli atti di indagine possono essere tipici, cioè specificatamente previsti e disciplinati dal legislatore, come lo sono le perquisizioni. Possono anche essere generici (detti innominati), quando manca una disciplina ex lege, come nel caso dei rilievi fotografici, segnaletici, descrittivi.
L’attività di indagine diretta, proprio per sua natura, è composta in gran parte dagli atti tipici, quali le perquisizioni (art. 352 c.p.p.), le acquisizioni di plichi e corrispondenza (art. 353 c.p.p.), gli accertamenti su cose (art. 354, comma 2, c.p.p.) o persone (art. 354, comma 3, c.p.p.), ed i sequestri (artt. 354, comma 2, e 355 c.p.p.).
La Polizia Giudiziaria, come detto, svolge investigazioni che, nella loro accezione pura, non necessitano di particolari formalità. Quando deve compiere un atto di indagine, atto riconducibile comunque ad attività della Autorità Giudiziaria (caso particolare di indagine si ha nel procedimento ex art.11, D. L. S., n. 274, del 2000), come lo sono in assoluto certi atti irripetibili, o le perquisizioni, o i sequestri, e si trova nella condizione di dover agire in particolare condizione di urgenza, la Polizia Giudiziaria può agire di propria iniziativa. L’atto investigativo così compiuto diventa atto di indagine se la Polizia Giudiziaria chiede al P.M., senza ritardo e non oltre le 48 ore, la convalida. Se la P.G. invece, seguendo un suo filone investigativo o di indagine nel procedimento innanzi al G.d.P., vuol compiere un atto che necessità di autorizzazione, la richiede al P.M., il quale la rilascia, se non ritiene di dover svolgere personalmente le indagini o i singoli atti (art. 13, D. L. S., n. 274, del 2000).
La mancata convalida non rende inutilizzabili le perquisizioni compiute dalla P.G., ma può comportare solo responsabilità penale o disciplinare dell’agente.
Per il sequestro, la mancata convalida, (art. 355, comma 1, c.p.p.), costituisce una mera irregolarità formale, in quanto non rientra nei casi tassativi di nullità (art. 177, c.p.p.) La giurisprudenza prevalente afferma che ciò non preclude la possibilità per il P.M. di disporre autonomamente, finché siano in corso le indagini preliminari, il sequestro delle cose già sequestrate dalla Polizia Giudiziaria.
Non è comunque delegabile il sequestro, la perquisizione o l’ispezione, eseguiti presso lo studio del difensore. Tale attività, devono essere compiute personalmente dal Giudice ovvero, nel corso delle indagini preliminari, dal P.M., in forza di motivato decreto di autorizzazione del Giudice (art. 103, comma 4, c.p.p.). Inoltre, nell’accingersi a compiere un’ispezione, perquisizione o sequestro nell’ufficio del difensore, l’Autorità Giudiziaria, a pena di nullità e inutilizzabilità della attività di indagine eseguita in violazione delle disposizioni dell’art.103, deve dare avviso al Consiglio dell’Ordine forense del luogo così che, il Presidente o un Consigliere da questo delegato, possano assistere alle operazioni. Allo stesso interveniente, se ne fa richiesta, è consegnata copia del provvedimento.
La Corte di Cassazione, con sentenza delle Sezioni Unite n.24 del 1994, ha affermato che: “l’operatività dei limiti e delle garanzie previste per le ispezioni e perquisizioni da eseguire negli uffici del difensore non è subordinata alla condizione che tali atti siano disposti dalla autorità giudiziaria nello stesso provvedimento in cui è svolta l’attività difensiva. Ne consegue, ad esempio, che deve ritenersi illegittima la perquisizione di uno studio di un difensore disposta dal P.M. ed eseguita dalla P.G. senza l’osservanza delle prescrizioni dell’art.103 commi 3 e 4, c.p.p., anche se con riferimento ad un provvedimento diverso da quello in cui era svolta l’attività difensiva”.
L’art.103, comma 2, c.p.p., dice che: “presso i difensori ed i consulenti tecnici non si può procedere a sequestro di carte o documenti relativi all’oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato (7)”.
I verbali di alcune delle attività prima in breve descritte, rientrano tra gli atti non ripetibili, cioè atti che descrivono situazioni obiettive non soggette a modificazione, e che pertanto non possono essere compiute una seconda volta (al dibattimento). Essi sono: i verbali di sequestro, le perquisizioni, gli accertamenti ed i rilievi, i verbali di arresto. L’art. 431, comma 1, c.p.p., consente la loro diretta introduzione nel fascicolo del dibattimento proprio stante la loro natura, prescindendo se compiuti dalla P.G. (art. 431/1 lett.b) o dal P.M. (art.431/1 lett.c). La legge Carotti, n.479, del 16/02/1999, art.26, su tale argomento, ha operato un’importante modifica. Infatti, grazie a questa norma, oggi il fascicolo del dibattimento non è più formato nella cancelleria del giudice dibattimentale, ma nel contraddittorio tra le parti che deve essere garantito con la presenza necessaria del P.M. e del difensore delle parti. Ora, anche per gli atti non ripetibili, questa garanzia deve essere rispettata. Infatti, quando deve essere compiuta una delle attività indicate negli artt. 352, 354, c.p.p., o quando si opera ai sensi dell’art.353, comma 2, c.p.p., il difensore della persona nei cui confronti sono svolte le indagini ha facoltà di assistere senza il diritto di essere preventivamente avvisato. Cioè, nel procedere al compimento di tali atti, la Polizia Giudiziaria avverte la persona sottoposta alle indagini, se presente, che ha facoltà di farsi assistere dal difensore di fiducia.
Proprio perché trattasi d’attività garantita e di notevole rilievo ai fini del processo, la Polizia Giudiziaria non ha diretto accesso al loro compimento, ma ha un accesso mediato dall’autorizzazione (ante factum) o dalla convalida (post factum) da parte del P.M..
L’art.353, comma 2, c.p.p., prevede la richiesta d’autorizzazione al P.M. da parte della P.G., nel caso in cui quest’ultima ritenesse utile l’apertura senza ritardo dei plichi o corrispondenza acquisiti per l’eventuale sequestro (la segretezza della corrispondenza è costituzionalmente garantita ex art 15 Cost.).
L’art. 353, comma 3, c.p.p., dice che la sospensione dell’inoltro della corrispondenza deve essere convalidato dal P.M. entro 48 ore. Stesso termine è previsto dalla convalida del sequestro (art. 355, comma 1, c.p.p.). Se il P.M. emette il decreto di convalida, contro questo provvedimento è possibile proporre richiesta di riesame entro 10 gg. dalla notifica dello stesso. Il decreto di perquisizione è sottoposto a riesame solo quando le cose rinvenute sono sottoposte a sequestro, altrimenti no.
E’ utile far presente che il non rispetto del termine di 48 ore da parte della P.G., non prevede nullità ma irregolarità: è un termine ordinatorio.
Se invece è il P.M. a non rispettare il termine di 48 ore per la convalida del sequestro (art. 355, comma1, c.p.p.), questo diviene inefficace, con conseguente obbligo di restituzione delle cose sequestrate.
Le sommarie informazioni (art. 350 c.p.p.) assunte dalla P.G. sono inserite nel fascicolo del P.M.. Possono essere utilizzate per le contestazioni ai sensi dell’art. 500 c.p.p., e se ricorrono le condizioni richieste dall’art. 500, comma 4 e comma 5, c.p.p., saranno utilizzate ai fini della decisione, entrando nel fascicolo del dibattimento.
Se le dichiarazioni assunte dalla P.G. sono originariamente irripetibili, saranno direttamente inserite nel fascicolo dibattimentale (art. 431, lett. b, c.p.p.). Se originariamente non lo erano (irripetibili) ma lo diventano imprevedibilmente, potranno a norma dell’art. 512, c.p.p. esser lette a richiesta di parte, dando vita alla c.d. trasmigrazione dal fascicolo del P.M. a quello del dibattimento.
La legge Carotti (art. 43, L. n. 479 del 16/12/1999) con l’art. 512 bis, c.p.p., ha previsto analoga lettura in dibattimento delle dichiarazioni rese da persona residente all’estero, solo nel caso in cui non sia assolutamente possibile l’esame dibattimentale.
IL GIUDICE DI PACE PENALE: LA FASE DEL PROCEDIMENTO.INDAGINI DEL P.M.
L’attività d’indagine della P.G. sopra descritta, nel procedimento ex D.L.S. 274 del 2000, ha una durata inderogabile di 4 mesi (art. 11, comma 1, del D.L.S. 274 del 2000).
Può essere un’attività pienamente o parzialmente autonoma secondo se il P.M., impartisce o no le direttive ai sensi dell’art. 12, comma 1, del D.L.S. 274 del 2000, ogni qualvolta abbia avuto notizie di un reato.
La P.G. al termine della sua fase d’indagine, trasmette una relazione scritta dove enuncia in forma chiara e precisa il fatto, con l’indicazione degli articoli di legge che si assumo violati, e richiede autorizzazione a disporre la comparizione della persona sottoposta ad indagini davanti al Giudice di Pace (art. 11, comma 2, del D.L.S. 274 del 2000).
Ricevuta la relazione, il P.M. provvede all’iscrizione della notizia di reato a seguito della trasmissione di cui all’art. 11, ovvero provvede anche prima, se ha compiuto personalmente il primo atto d’indagine (art. 14, del D.L.S. 274 del 2000).
A questo punto se il P.M. non ritiene di dover chiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale (8),formulando l’imputazione ed autorizzando la citazione dell’imputato (art.15, comma 1, del D.L.S. 274 del 2000).
Se invece ritenesse necessarie ulteriori indagini, il P.M. vi provvede personalmente o si avvale della P.G., impartendo direttive o delegando il compimento di specifici atti (art. 15, comma 2, del D.L.S. 274 del 2000).
Quest’ultima parte dell’art. 15 ci indica che l’attività d’indagine del P.M., definita come indagine preliminare dall’art. 16, comma 1, del D.L.S. 274 del 2000, è un’attività eventuale. Infatti, essa può avere un’estensione piena quando ritenga le precedenti indagini della P.G. inconsistenti. Può avere un’estensione parziale quando opera per integrare l’attività d’indagine della P.G.. Ovvero, un’estensione nulla quando ritenga soddisfacente l’indagine della polizia e si limiti alla sola formulazione dell’imputazione, autorizzando la citazione dell’imputato.
Le indagini preliminari svolte dal P.M. hanno una durata di 4 mesi derogabili per un periodo non superiore a 2 mesi. La deroga deve essere richiesta al Giudice di Pace circondariale (art. 5, comma 2, del D.L.S. 274 del 2000) con provvedimento motivato, il quale se non ritiene sussistenti in tutto o in parte le ragioni rappresentate dal P.M., entro 5 gg. dalla comunicazione, dichiara la chiusura delle indagini o riduce il termine indicato (art. 16, comma 2, del D.L.S. 274 del 2000). Gli atti compiuti dopo la scadenza del termine d’indagine (4 mesi) eventualmente prorogato (2 mesi) non possono essere utilizzati. E’ stato precisato che l’inutilizzabilità si riferisce soltanto all’efficacia probatoria degli atti. Ne consegue che anche dopo la scadenza del termine, possono essere adottati tutti quegli atti che non hanno efficacia probatoria diretta, ma sono espressione e conseguenza della valutazione d’atti d’indagine compiuti prima della scadenza (esempio di rinvio a giudizio, richiesta di misure cautelari reali o personali, etc.).
Il P.M. è l’attore principale nella fase delle indagini preliminari.
Gli atti compiuti dal P.M. non hanno carattere giurisdizionale in quanto si formano fuori della dialettica dibattimentale, ed hanno una valenza diversa da quella degli analoghi atti compiuti dal giudice. Ciò è evidente anche dalla diversa nomenclatura utilizzata. Infatti, per il P.M. si parla d’interrogatorio dell’indagato, per il giudice d’esame; sommarie informazioni c.d. testimoniali anziché testimonianza; individuazione di persone o cose piuttosto che di ricognizione personale o reale; accertamenti tecnici in luogo di perizia; consulenti d’ufficio in luogo di periti.
Il P.M. svolge personalmente ogni attività d’indagine. Per taluni atti d’indagine il P.M. può delegare alla P.G. il loro compimento, compresi gli interrogatori ed i confronti cui partecipi la persona sottoposta ad indagini che si trovi in stato di libertà, con l’assistenza necessaria di un difensore (art. 370, comma 1, c.p.p.). Se devono essere assunti nella circoscrizione d’altro Tribunale, il P.M. qualora non ritenga di procedere personalmente, può delegare alla Procura del luogo. In caso d’urgenza o necessità il P.M. delegato può svolgere, di propria iniziativa, atti ritenuti necessari ai fini dell’indagine delegata (art. 370, comma 1, c.p.p.). Analoga delega dal P.M. alla P.G. è prevista nell’art. 13, del D.L.S. 274 del 2000.
Se durante lo svolgimento dell’attività d’indagine, il P.M. deve procedere ad accertamenti che richiedono particolari cognizioni scientifiche o tecniche, può avvalersi dei consulenti tecnici (at. 359, comma 1, c.p.p.), scelti di regola tra le persone iscritte negli albi dei periti (Disp. Att. Art. 73). Tali consulenti sono una longa manus del P.M.. Quindi il risultato della loro attività non può essere utilizzata in dibattimento, può solo essere utilizzata per la decisione presa con rito abbreviato. L’accertamento tecnico ripetibile, così compiuto, non entra nel fascicolo del dibattimento ex 431, c.p.p., e non può essere direttamente utilizzato per la decisione.
Possono essere utilizzate ai fini di prove le risultanza degli accertamenti tecnici non ripetibili (art. 360, c.p.p.), che sono ab initio inseriti nel fascicolo dibattimentale (art. 431, c.p.p.).
Prima di dar vita all’attività ex art. 360, c.p.p., il P.M. deve dar avviso senza ritardo alle parti interessate ed ai loro difensori, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico e della facoltà di nominare propri consulenti. Ai sensi dell’art. 110 Disp. Att., l’art. 360, c.p.p., trova applicazione anche nel caso in cui sia lo stesso accertamento tecnico a provocare la modificazione delle cose, dei luoghi o delle persone che fanno oggetto.
Prima del conferimento dell’incarico, la persona sottoposta ad indagine può richiedere di promuovere incidente probatorio (art. 392, c.p.p.). Il P.M., in tal caso, può sospendere l’esecuzione dell’accertamento tecnico non ripetibile ed adire alla richiesta dell’indagato.
Se invece il P.M. ritenga i tempi d’esecuzione dell’incidente probatorio eccessivamente lunghi e tali da ledere il risultato dell’accertamento tecnico in esecuzione, revoca la sospensione rigettando la richiesta ex art. 392, c.p.p.. Nel giudizio davanti al giudice di pace manca l’istituto dell’incidente probatorio. E’ previsto invece l’assunzione delle prove non rinviabili ex art. 18 del D.L.S. 274 del 2000. La persona sottoposta ad indagini può chiedere che l’accertamento sia espletato mediante perizia dinanzi al Giudice.
Se durante gli accertamenti tecnici non ripetibili, è omesso l’avviso alle persone indagate ex art. 360, comma 1, c.p.p., le risultanze di tali operazioni non possono essere inseriti nel fascicolo del dibattimento (art. 223, comma 3, Disp. Att.). Quindi non sono utilizzabili direttamente come materiale probatorio già formato, bensì come atti delle indagini preliminari. Il loro inserimento nel fascicolo dibattimentale può avvenire attraverso l’esame dei consulenti tecnici operanti ai sensi dell’art. 501 c.p.p., i quali riferiscono sui risultati dell’analisi compiuti ed illustrano la validità delle metodiche seguite.
Per l’individuazione di cose e di persone non sono previste forme particolari di garanzia difensiva.
Per l’art. 361, c.p.p., il P.M. vi procede quando l’individuazione è necessaria per l’immediata prosecuzione delle indagini. E’ un atto d’indagine del P.M., assimilabile alle ricognizioni effettuate davanti al Giudice. Sono da un punto di vista probatorio assimilabili alle informazioni assunte dal P.M. (art. 362, c.p.p.). L’individuazione che né deriva, può essere inserita nell’istruzione dibattimentale con la procedura della contestazione a norma dell’art. 500 c.p.p. Se diviene irrepetibile, per causa sopravvenuta, può esser data lettura in dibattimento per richiesta di parte, a norma dell’art. 512, c.p.p., che consente la trasmigrazione nel fascicolo dibattimentale ai sensi dell’art. 431, lett.c, c.p.p..
Come sopra già accennato, il P.M. può assumere informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini dell’indagine. E’ un’attività analoga a quella testimoniale resa dinnanzi al Giudice dibattimentale. Ora, le risultanze di tale attività confluiscano nel fascicolo del P.M. e possono essere usate per le contestazioni ai sensi dell’art. 500 c.p.p.. Se divengono irripetibili, opera la trasmigrazione ai sensi dell’art. 512, c.p.p., prevista anche nell’art. 512 bis, c.p.p., quando l’impossibilità dell’esame testimoniale riguarda la dichiarazione resa da persona residente all’estero. Se le informazioni acquisite dal P.M., hanno un’originaria impossibilità di ripetizione (es.: dichiarazione del morente), vengono inserite direttamente nel fascicolo dibattimentale ai sensi dell’art. 431, lett. c, c.p.p..
Anche per l’attività ex art. 362, c.p.p., non è richiesta la presenza del difensore. Le persone convocate possono riferire circostanze utili alle indagini del P.M.. Quest’ultimo nell’esercizio delle sue funzioni, si avvale dei poteri coercitivi riconosciuti, ex art. 131, c.p.p., oltre che agli artt. 377 e 378, c.p.p., nei confronti di chi rifiuti la convocazione. La persona che rende dichiarazioni al P.M., ha l’obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte. Di quest’obbligo deve essere avvertito inizialmente. Se la persona informata sui fatti rende dichiarazioni false o reticenti, risponde del delitto previsto e punito ex art. 371 bis, c.p..
Se la persona è chiamata a rendere esame testimoniale può avvalersi della facoltà di non rispondere (9), quando è un prossimo congiunto dell’imputato (art. 199, c.p.p.), quando vi è una causa d’incompatibilità con l’ufficio del testimone (art. 197, c.p.p.) o quando può opporre uno dei segreti indicati negli artt. 200 (segreto professionale), 201 (segreto d’ufficio), 202 (segreto di stato) e 203 (si tratta d’informativa della P.G. e dei servizi di sicurezza) del Codice di Procedura Penale.
Sempre davanti al P.M. si svolge l’interrogatorio dell’imputato di un procedimento connesso (art. 363 c.p.p.) o dell’indagato (art. 364 c.p.p.).
Infatti, l’interrogatorio è un’attività prettamente procedimentale. Nel dibattimento, così come già detto, si ha l’esame dell’imputato (art. 208, c.p.p.), rientrante tra i mezzi di prova, cioè tra quegli strumenti o istituti processuali immediatamente funzionali alla decisione giudiziale (artt. 194-243, c.p.p.). Nell’art. 363, c.p.p., cioè per l’interrogatorio di persona imputata di un provvedimento connesso, al P.M. è prescritto il ligio rispetto di quelle garanzie e delle procedure previste dall’art. 210, c.p.p., per l’esame effettuato dal giudice. Procedura particolare è prevista dall’art. 364, c.p.p., per l’interrogatorio della persona sottoposta ad indagine. Tali attività possono essere delegate dal P.M. alla P.G..
E’ utile ricordare la funzione dell’interrogatorio. Esso è un atto della fase d’indagine preliminare. Non ha funzione probatoria, ma serve all’acquisizione d’ulteriori elementi da parte del P.M. in ordine all’esercizio dell’azione penale. Se il processo si concluderà con uno dei riti speciali, privi del dibattimento, potrà acquisire del valore probatorio.
La persona sottoposta ad interrogatorio interviene sempre libera (art. 64, c.p.p.), salvo per il caso di necessarie cautele nel prevenire la fuga o il pericolo di violenze.
Prima che abbia inizio l’interrogatorio, la persona deve essere avvertita che ha facoltà di non rispondere e che, se non risponde, il procedimento seguirà il suo corso. E’ comunque obbligata a fornire le proprie generalità (art. 66, c.p.p.).
La legge sul giusto processo (L. n. 63, del 1/03/2001), ha introdotto il comma 3 bis dell’art. 64 c.p.p., il quale prevede che l’inosservanza delle disposizioni di cui sopra, rendono inutilizzabili le dichiarazioni eventualmente rese dalla persona interrogata; esse, inoltre, non potranno essere utilizzate nei confronti di altri la cui responsabilità è emersa dall’interrogatorio. E sempre in ordine a tali fatti, la persona interrogata non potrà assumere l’ufficio di testimone.
L’Autorità Giudiziaria o la P.G. da essa delegata deve, una qualvolta il soggetto abbia dichiarato di voler rispondere, contestare alla persona sottoposta ad indagini il fatto che le è attribuito. Deve rendere noti gli elementi di prova esistenti contro di lei indicando, se non deriva pregiudizio per le indagini, le fonti. Tale norma va coordinata con quella ex art.329, comma 1, c.p.p., che prevede il segreto per taluni atti d’indagine.
Il rifiuto di rispondere è menzionato nel verbale. Sempre nel verbale è fatta menzione, quando occorre, dei connotati fisici e d’eventuali segni particolari della persona.
L’interrogatorio così come l’ispezione dell’indagato, ed i confronti effettuati dal P.M. con la partecipazione dell’indagato, sono definiti atti garantiti, distinguendoli dagli altri atti d’indagine preliminare, perché in questi è previsto l’intervento e l’assistenza del difensore dell’indagato. Al difensore deve esser dato avviso almeno 24 ore prima del compimento degli atti indicati nel comma 1, dell’art, 364 c.p.p. e delle ispezioni a cui non deve partecipare la persona sottoposta ad indagini. Tuttavia, se vi è urgenza motivata dal P.M., il termine può essere ulteriormente ridotto, dandone avviso al difensore senza ritardo e comunque tempestivamente. L’avviso può essere omesso quando il pubblico ministero procede ad ispezione e vi è fondato motivo di ritenere che le tracce o gli altri effetti materiali del reato possano essere alterati. E’ fatta salva, in ogni caso, la facoltà del difensore d’intervenire. Il P.M. deve specificatamente indicare, a pena di nullità, i motivi della deroga e le modalità dell’avviso.
Nel verbale redatto al compimento delle attività previste dall’art. 364, comma 1, c.p.p., devono essere menzionate le osservazioni e le riserve espresse dal difensore.
Quando le dichiarazioni rese da persone interrogate sono fra di loro in contraddizione, il P.M. direttamente o per delega (art. 370, comma 1, c.p.p.) può procedere al confronto. Le persone indagate possono avvalersi della facoltà di non rispondere così come i soggetti individuati dagli artt. 197, 199, 200, 201, 202 e 203.
In tali casi il confronto non può essere disposto (Cass. Pen. n. 6282, del 26.6.1997).
I verbali dell’attività compiuta entrano nel fascicolo del P.M., con una possibilità di trasmigrazione in quello dibattimentale nei casi precedentemente indicati (impossibilità di riproduzione sopravvenuta , contestazioni, etc.).
Il confronto in dibattimento è condotto dal giudice, e la documentazione dell’atto assume un ruolo decisivo in sede di valutazione della prova.
L’ispezione consiste in un’attività volta alla ricerca ed allo eventuale e consequenziale acquisizione di tracce di reato ed altri suoi effetti materiali su persone, luoghi o cose. Sono effettuate sia durante le indagini preliminari dalla P.G. (art. 354, c.p.p.), con esclusione della ispezione personale (art. 354, comma 3, c.p.p.), che dal P.M. (art. 364, c.p.p.). In dibattimento è il giudice a provvedere.
Vi sono 3 tipi d’ispezione: l’ispezione personale, l’ispezione locale e quella reale.
L’ispezione personale è la più delicata. Infatti il suo compimento, precluso alla P.G., è riservato solo all’Autorità Giudiziaria (Pubblico Ministero e Giudice).
La persona sottoposta ad ispezione è assistita da un difensore d’ufficio, con la possibilità di nominarne uno di fiducia (artt. 364, comma 2 e 369 bis, c.p.p.). Al difensore, almeno 24 ore prima, è riconosciuto l’avviso per il compimento dell’atto, solo nel caso in cui alle ispezioni non deve partecipare la persona sottoposta ad indagini (art. 364, comma 3, c.p.p.). Può essere omesso l’avviso nel caso in cui è il P.M. a procedere ad ispezione, e vi è fondato motivo di ritenere che le tracce e gli altri effetti materiali del reato possano essere alterati. In tal caso, è fatta salva la facoltà del difensore di intervenire (art. 364, comma 5, c.p.p.). Quando procede nei modi su indicati, il P.M. deve specificatamente indicare a pena di nullità, i motivi della deroga e le modalità dell’avviso (art. 364, comma 3, c.p.p.).
L’ispezione locale si ha quando la ricerca è effettuata nel domicilio o anche in altri luoghi.
L’ispezione locale presso l’ufficio dei difensori gode di particolari cautele. Non può essere disposta di propria iniziativa dal P.M., né per delega alla P.G.. Infatti, è riconosciuto solo alla A.G. la possibilità di operare tale particolare ispezione. Il P.M. non ha il potere autonomo di ordinarla, ma necessita d’autorizzazione per decreto motivato del Giudice di Pace circondariale, nel suo ruolo di G.I.P. (art. 5, comma 2, D.L.S. n. 274, del 2000). E’ necessario, inoltre, dare preavviso al Presidente del locale Ordine Forense, pena la nullità (art. 103, comma 3, c.p.p.), il quale personalmente o attraverso un Consigliere da lui delegato, può assistere alle operazioni. Allo stesso interveniente, se fa richiesta, è consegnata copia del provvedimento.
Come tutti i mezzi di ricerca della prova, le ispezioni sono attività irripetibili, e pertanto i relativi verbali sono destinati ad entrare nel fascicolo del dibattimento (art. 431, c.p.p.), così da poter essere conosciuti immediatamente dal giudice, ed eventualmente utilizzati per la decisione.
Nel procedere ad ispezione, l’autorità giudiziaria può ordinare, enunciandone nel verbale i motivi del provvedimento, che taluno non si allontani prima che le operazioni siano concluse, e può far ricondurre coattivamente sul posto i testimoni. Il potere di divieto di allontanamento dal luogo della ispezione può essere esercitato soltanto se l’autorità Giudiziaria procede personalmente all’esecuzione dell’atto: infatti, è necessario esporre i motivi nel verbale. Ciò significa che nel caso l’atto venisse delegato alla Polizia Giudiziaria, questa non potrebbe esercitare l’attività coercitiva.
Ulteriore mezzo di ricerca della prova è la perquisizione.
Quest’ultima si distingue dalla ispezione perché è un’attività preordinata alla ricerca del corpo del reato ed in generale delle cose pertinenti al reato. L’ispezione, invece, consiste in attività di ricerca delle tracce e d’altri effetti materiali del reato su persone, luoghi o cose.
Vi sono due tipi di perquisizione (art. 247, c.p.p.): la perquisizione personale, che viene disposta quando vi è fondato motivo di ritenere che taluno occulti sulla persona il corpo del reato o le cose ad esso pertinenti. E la perquisizione locale disposta quando vi è fondato motivo di ritenere che tali cose si trovino in un determinato luogo, ovvero che in esso possa eseguirsi l’arresto dell’imputato o dell’evaso.
La perquisizione è disposta con decreto motivato, ed è eseguibile dalla A.G. o per delega da un ufficiale di P.G., che ha un autonomo potere di perquisizione in caso di flagranza di reato (art. 352, c.p.p.). In tal caso però la P.G., senza ritardo e comunque e non oltre le 48 ore, trasmette al P.M. del luogo dove la perquisizione è stata eseguita, il verbale delle operazioni compiute. Il P.M., se ritiene che siano state rispettate le prescrizioni ex 252, c.p.p., convalida la perquisizione. I verbali compiuti entrano nel fascicolo del dibattimento, e attraverso la lettura, sono utilizzati ai fini del giudizio. Il difensore ha diritto di assistervi, ma non c’è obbligo nei suoi confronti di preavviso (art. 365, c.p.p.), proprio perché la perquisizione è un atto a sorpresa. Le persone sottoposte a perquisizione possono essere assistite o rappresentate da persone di fiducia (10) prontamente reperibili ed idonee a norma dell’art. 120, c.p.p. (11). Per le perquisizioni personali, deve sempre essere salvaguardata la dignità, e nei limiti del possibile, il pudore di chi vi è sottoposto (art. 249, comma 2, c.p.p.).
Ciò è ribadito dalla particolare attenzione che la Costituzione riconosce alle perquisizioni ed alle ispezioni personali (art. 13 Cost.).
Per le perquisizioni locali presso gli uffici del difensore si hanno le stesse garanzie prima richiamate per le ispezioni (art. 103, c.p.p.). Particolare garanzia ha la perquisizione nel domicilio, per la quale sono stabiliti limiti temporali. Infatti, non può essere iniziata prima delle ore sette del mattino, e non oltre le ore otto della sera (art. 251, comma 1, c.p.p.). Nei casi d’urgenza, l’Autorità Giudiziaria può disporre per iscritto che la perquisizione sia eseguita fuori dei suddetti limiti temporali (artt. 251, comma 2 e 352, comma 3, c.p.p.).
Le cose rinvenute a seguito della perquisizione sono sottoposte a sequestro. Tale sequestro viene definito probatorio ed è un mezzo di ricerca della prova.
Altri tipi di sequestro sono il preventivo (art. 321, c.p.p.), disposto quando vi è pericolo che la liberta disponibilità di una cosa pertinente al reato possa agevolare o protrarre le conseguenze o agevolare la commissione d’altri reati, ed il conservativo (art. 316, c.p.p.), disposto invece per garantire l’adempimento d’obbligazioni civili connesse al reato o allo stesso procedimento penale ( e cioè preordinato ad evitare la sottrazione o dispersione di garanzie reali ). Sia il sequestro preventivo, sia il conservativo sono compresi nelle misure cautelari reali. Il probatorio, invece, è un mezzo di ricerca della prova.
L’Autorità Giudiziaria dispone con decreto motivato il sequestro del corpo del reato e delle cose pertinenti al reato necessarie per l’accertamento dei fatti. Contro il decreto motivato che dispone il sequestro è previsto il riesame, disciplinato dall’art. 324, c.p.p.. Tribunale del riesame è quello del capoluogo della provincia nel quale ha sede l’ufficio che ha emesso il provvedimento (12). Decide in composizione collegiale ed in camera di consiglio (art. 127, c.p.p.). Solo nel caso di sequestro preventivo è previsto l’appello contro il provvedimento emesso in sede di riesame (art. 322 bis, c.p.p.). Non vi è appello nel caso del sequestro conservativo o probatorio. Per tutti i tipi di sequestro è previsto un grado di legittimità: il ricorso per Cassazione.
Sulla motivazione del provvedimento dispositivo del sequestro, le Sezioni Unite della Cassazione si sono più volte pronunciate. Hanno sentenziato che non è necessario dimostrare, nella motivazione del decreto, quali finalità d’accertamento dei fatti si vogliono perseguire. Infatti, è stato ritenuto che l’esigenza probatoria del corpus delicti è in re ipsa (Cass., Sez. Un., sent. n. 2, del 15 marzo 1994). Successivamente la Suprema Corte ha affermato che, anche per il sequestro del corpo del reato, è necessario indicare le finalità che, con il provvedimento, si vogliono perseguire ( Cass., sent. n. 1786, del 11 giugno 1998).
Questa pronuncia nasce, come logica deduzione, dalla attenta lettura dell’art. 253, c.p.p., (che richiede un’attività di sequestro finalizzata all’accertamento dei fatti, la quale deve essere soggettiva, perché riconducibile alla capacità d’indagine dell’Autorità Giudiziaria, e non oggettiva, in quanto legato alla natura strumentale della cosa oggetto del reato), e dell’art. 262, c.p.p., il quale disciplina la restituzione delle cose, tra le quali l’oggetto del reato, nel momento in cui non è più necessario mantenere il sequestro ai fini di prova.
L’Autorità Giudiziaria procede personalmente a sequestro o delegando la Polizia Giudiziaria (art. 370, c.p.p.). Del decreto viene data copia alla parte interessata presente, se ne fa richiesta. Viene inoltre redatto verbale nella forma integrale, così come disposto dall’art. 81 delle Norme d’Attuazione (art. 354, comma 2, c.p.p., e art. 113, Disp. Att. c.p.p.).
L’Autorità Giudiziaria quando ritiene che lettere, plichi, pacchi, valori, telegrammi o altri oggetti della corrispondenza, siano stati spediti dall’imputato, o siano a lui diretti, può disporne il sequestro. Se al sequestro provvede un ufficiale di P.G., una volta acquisita la corrispondenza, la consegna alla Autorità Giudiziaria senza aprirla, e senza prendere conoscenza del contenuto. E’ solo l’Autorità Giudiziaria l’unica a poter aprire la corrispondenza.
E’ assolutamente vietato il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza che intercorre tra l’imputato e il proprio difensore, quando questa sia riconoscibile ai sensi dell’art. 35, Disp. Att., c.p.p.. Se però l’Autorità Giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti del corpo del reato, può derogare al divieto ex art. 103, comma 6, c.p.p..
Anche per il sequestro presso le banche, legittimata all’azione è la sola Autorità Giudiziaria, la quale può sequestrare, solo quando abbia valide ragioni, cose che ritenga pertinenti al reato, quantunque non appartengano all’imputato o non siano iscritte al suo nome. Ciò serve ad individuare quei beni che, con il fine di occultare il corpo o le cose pertinenti al reato, siano stati intestati ad eventuali prestanome.
Quando l’Autorità Giudiziaria richiede documenti coperti dal segreto professionale ex art. 200, c.p.p., o dal segreto d’ufficio ex art. 201, c.p.p., questi devono esser immediatamente consegnati, salvo che, alla richiesta, gli opponenti dichiarino per iscritto che si tratti di segreto di Stato (art. 202, c.p.p.), ovvero di segreto inerente al loro ufficio o professione (art. 200, c.p.p.).
Se la dichiarazione concerne il segreto ex art. 200, c.p.p., l’Autorità Giudiziaria, quando ha dubbi sulla sua fondatezza e ritiene di non poter procedere senza acquisire i documenti e quant’altro, provvede agli accertamenti necessari. Nel caso in cui la dichiarazione risulta infondata, dispone il sequestro. Quando la dichiarazione concerne invece il segreto ex art. 201, c.p.p.(segreto di Stato), l’Autorità Giudiziaria ne informa il Presidente del Consiglio dei Ministri, chiedendo che ne sia data conferma.
Qualora il segreto sia confermato e la prova sia essenziale per la definizione del processo, il Giudice dichiara di non doversi procedere per l’esistenza di un segreto di Stato. Qualora, entro sessanta giorni dalla notificazione della richiesta, il Presidente del Consiglio dei Ministri non dia conferma del segreto, l’Autorità Giudiziaria può disporre il sequestro.
Avverso al decreto che dispone il sequestro, può esser presentata richiesta di riesame al Tribunale del capoluogo della provincia nella quale ha sede l’ufficio dell’Autorità Giudiziaria che ha emesso il provvedimento. Per il solo sequestro preventivo (art. 321, c.p.p.) è previsto il mezzo di gravame dell’appello (art. 322 bis, c.p.p.). Contro la decisione del Tribunale del Riesame è, comunque, previsto un grado di legittimità, cioè il ricorso per Cassazione. Contro i provvedimenti di restituzione e di revoca del sequestro chiesti dagli interessati, l’art. 263, c.p.p., disciplina l’istituto dell’opposizione, sulla quale il Giudice provvede a norma dell’art. 127, c.p.p.
Per il principio di tassatività dei mezzi di gravame, stabilito dall’art. 568, c.p.p., il riesame non è previsto per la perquisizione. Può accadere, però, che con un unico atto sia disposta sia la perquisizione sia il conseguente, ed eventuale, sequestro degli oggetti rinvenuti. In tal caso, quando cioè la perquisizione sia finalizzata al sequestro, il riesame, come attività di verifica della legittimità del sequestro, coinvolge anche la perquisizione per la stretta interdipendenza delle due attività. Quindi, il riesame non è ammissibile se i motivi di censura fatti valere riguardano, solo ed unicamente, l’attività di perquisizione, anche se strumentale ad un successivo sequestro (Cass. Pen., Sez. Un., 29/01/97, Pres. Scorzelli, Ric. Bassi).
Le cose sequestrate, compresi i documenti, vanno inseriti nel fascicolo per il dibattimento qualora non debbano essere custoditi altrove. Il verbale di sequestro, in quanto documento di un atto irripetibile, va pure inserito nel fascicolo dibattimentale.
(continua...)