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Sei in: Approfondimenti Giusto processo
L’investigatore privato autorizzato e il segreto professionale

L’evoluzione della disciplina.
La figura dell’investigatore privato, come ausiliario del difensore nell’ambito delle investigazioni difensive, era già prevista nel comma 2 dell’art. 38 disp. att. c.p.p.
Quest’ultimo articolo era l’unica disposizione riguardante le investigazioni difensive, contenuta nella versione originaria del codice di procedura penale del 1988.
In virtù di tale norma si consentiva al difensore di delegare le indagini a “investigatori privati autorizzati”, riconoscendone così per la prima volta il fondamentale ruolo nel processo penale.
La collocazione della suddetta previsione in un comma autonomo, rispetto a quello che prendeva in considerazione i sostituti e i consulenti tecnici, generò in dottrina una pluralità di interpretazioni: da una parte , si vedeva così sancita la maggiore ampiezza del mandato dell’investigatore; dall’altra , la previsione in un comma autonomo veniva attribuita ad un difetto di coordinamento, poiché - si osservava - nella disposizione originaria dell’art. 33 prog. prel. disp. att. c.p.p. agli investigatori privati era attribuita solo la facoltà di ricercare e individuare elementi di prova e non anche quella di conferire con le persone informate sui fatti .
Appariva infatti evidente l’inconciliabilità tra le disposizioni riguardanti gli istituti di investigazione privata , contenute negli artt. 134-141 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (R.D. 18 giugno 1931, n. 773),  e negli artt. 257-260 del relativo Regolamento di esecuzione (R.D. 6 maggio 1940, n. 635), e l’esercizio dell’attività investigativa finalizzata alla difesa nel procedimento penale.
Nel testo definitivo del codice del 1988 fu, quindi, inserito l’art. 222 disp. coord. c.p.p., non contemplato nei progetti precedentemente redatti, con lo scopo di fornire una disciplina transitoria, “in attesa di un complessivo riassetto degli istituti di investigazione privata, che dovrà tener conto anche delle esperienze che la pratica applicazione della nuova disciplina potrà offrire” .  La disciplina transitoria prevede, al comma 1, che “fino all’approvazione della nuova disciplina sugli investigatori privati”, l’autorizzazione a svolgere le attività indicate all’art. 38 disp. att. c.p.p. doveva essere rilasciata dal prefetto agli investigatori che avessero maturato “una specifica esperienza professionale che garantisse il corretto esercizio dell’attività”. Ciò ha comportato il venir meno della prassi, formatasi presso le prefetture, di inserire nella licenza rilasciata agli investigatori una clausola che inibiva “di eseguire investigazioni e ricerche e di raccogliere informazioni in merito a fatti o circostanze che risultino già oggetto di indagine da parte di organi di polizia giudiziaria” .
Attualmente la regolamentazione della professione degli investigatori è demandata a un disegno di legge approvato a maggio dalla commissione Giustizia del Senato, riunita in sede referente. Il Senato non ha, però, ancora inserito l’esame del testo nel proprio calendario dei lavori. Quindi si prospettano ancora tempi molto lunghi per vedere la “nascita” di questa legge: come sappiamo, dopo l’approvazione al Senato sarà la volta della Camera discutere il provvedimento. Il disegno di legge prevede di istituire un doppio Albo, uno per gli investigatori privati, l’altro per gli “investigatori giudiziari”, configurati come una sorta di super detective, ai quali sarà riservata la collaborazione con gli avvocati nelle indagini difensive .
Oggi comunque, a distanza di oltre  quindici anni dall’entrata in vigore del nuovo codice, e dopo  quattro anni dalla legge sulle investigazioni difensive, la normativa sugli investigatori privati deve ancora essere approvata.

 

 

2. L’autorizzazione a compire investigazioni penali.
Il procedimento autorizzativo fu regolamentato con la circolare 20 ottobre 1989, n. 559/C./26410/ 10089.D.A. (15) del Ministero dell’Interno-Dipartimento della Pubblica Sicurezza, intitolata “Nuovo codice e investigatori privati” .
 In tale circolare si precisa che il rilascio dell’autorizzazione è subordinato alla valutazione, da parte del Prefetto, di una maturata esperienza professionale. Su richiesta, potrà essere riconosciuta sia ai soggetti già autorizzati, a norma dell’art. 134 T.u.l.p.s. , ad eseguire investigazioni o ricerche o a raccogliere informazioni per conto di privati,  e sul presupposto dell’attività effettivamente svolta, sia ai soggetti che, pur non essendo in possesso della predetta licenza, possano dimostrare di possedere un’esperienza professionale nel settore investigativo ( ad esempio in quanto ex appartenenti alle forze armate ).
La dottrina ha criticato l’interpretazione offerta dalla suddetta circolare, poiché avrebbe creato in via amministrativa, praeter legem, una nuova categoria di investigatori privati, autorizzati a svolgere la propria attività esclusivamente nel campo delle indagini difensive, mentre invece la formulazione dell’art. 222 comma 1 disp. coord. c.p.p. sembra presupporre che possano essere autorizzati solamente i soggetti, particolarmente qualificati, che già rivestivano la qualità di “investigatori” ai sensi delle leggi di pubblica sicurezza .
Sulla base dell’interpretazione ministeriale dell’art. 222 disp. coord. c.p.p. i soggetti autorizzati a svolgere attività di indagine e di ricerca per conto di “privati” possono essere suddivisi in tre categorie: le persone fisiche o gli istituti forniti della licenza prevista dall’art. 134 T.u.l.p.s., che sono abilitati a svolgere attività investigative estranee alla difesa penale; le persone fisiche che, munite della predetta licenza, sono autorizzate, in forza del combinato disposto degli artt. 134 T.u.l.p.s. e 222 disp. coord. c.p.p., a svolgere anche indagini per ricercare elementi di prova ai fini della difesa personale; e inoltre le persone fisiche che sono autorizzate a svolgere esclusivamente indagini per le finalità prima indicate nell’art. 38 disp. att. c.p.p. e ora previste nell’art. 327-bis c.p.p.
In definitiva abilitati all’attività investigativa ai fini della difesa possono essere soltanto le persone fisiche, perché “l’autorizzazione di polizia ha carattere personale e il riferimento agli investigatori privati autorizzati (…) è inequivoco nel non lasciare spazio a persone giuridiche, enti o istituti” .


3. L’incarico professionale e il registro speciale.
L’intervento dell’investigatore è subordinato al conferimento dell’incarico scritto da parte del difensore, che deve indicare in maniera specifica il procedimento penale nonché i principali elementi di fatto che giustificano le indagini e il termine entro cui  se ne possa prevedere la conclusione.
All’investigatore, con il conferimento dell’incarico, viene inibito di intraprendere di propria iniziativa altre ricerche.
Egli ha l’obbligo di eseguire le attività personalmente e di riferire al difensore periodicamente sull’andamento delle indagini.
Ai sensi dell’art. 222 comma 2 disp. coord. c.p.p. gli incarichi ricevuti devono essere iscritti in uno speciale registro, che di seguito illustro.
Gli investigatori privati autorizzati a svolgere investigazioni difensive non sono tenuti, per lo svolgimento di indagini processulamente rilevanti, alle registrazioni previste dagli artt. 135 T.u.l.p.s. e 260 reg. es. T.u.l.p.s .
 Difatti l’art. 222 comma 2 disp. coord. c.p.p. deroga alla disciplina comune prescrivendo che l’incarico conferito al difensore debba essere iscritto in uno “speciale registro”, in cui sono annotate: a) le generalità e l’indirizzo del difensore committente; b) la specie degli atti investigativi richiesti; c) la durata delle indagini, determinata al momento del conferimento dell’incarico.
Circa quest’ultimo aspetto la dottrina ha rilevato come appaia difficile determinare ex ante la durata delle indagini al momento del conferimento dell’incarico, ritenendo quindi possibile l’indicazione di una durata “presumibile” .
Altri dubbi attengono alla mancata precisazione, sia da parte della circolare ministeriale sopradetta sia da parte del codice, della durata della conservazione  del registro speciale; alcuni autori ritengono applicabile, per analogia, l’ultimo comma dell’art. 260 reg. es. T.u.l.p.s., che prevede la conservazione del registro degli affari giornalieri ex art. 135 T.u.l.p.s. per cinque anni .
Analizzando la disciplina del registro speciale risulta che non vi devono essere annotate le generalità dell’assistito, né la data e la specie dell’operazione effettuata, né l’esito dell’operazione, a differenza della disciplina comune del registro degli affari giornalieri ex art. 135 comma 1 T.u.l.p.s.
In base alla citata circolare interpretativa del Ministero dell’Interno, la deroga all’art.135 T.u.l.p.s. deve ritenersi limitata esclusivamente all’adozione dello speciale registro e al tipo di iscrizioni da apportarvi, non estendendosi all’obbligo di esibire il registro “ad ogni richiesta degli ufficiali o degli agenti di pubblica sicurezza”, previsto dall’art. 135 comma 2 T.u.l.p.s.
Questa interpretazione ha generato in dottrina molte critiche. Si osserva che se, in effetti, l’art. 222 comma 2 disp. coord. c.p.p. non deroga espressamente all’art. 135 comma 2 T.u.l.p.s., è, però, anche vero che la ratio di tutta la disciplina degli investigatori privati a fini processuali è da ricercarsi nella esigenza di tutelare la segretezza delle investigazioni svolte dalla difesa, così come tutelata, ex art. 329 c.p.p., è la segretezza delle indagini preliminari svolte dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria. Fatte queste considerazioni, non si capisce come tale risultato possa essere conseguito nel momento in cui si legittimano strumenti informativi a favore della parte pubblica, così come accadrebbe ove si consentisse l’esibizione del registro agli organi di polizia.
Dunque si può concludere che la polizia giudiziaria e il pubblico ministero non sono legittimati a prendere visione dei dati trascritti , che devono rimanere segreti anche dopo la scadenza del termine di durata indicato nell’art. 6 della Autorizzazione generale del Garante per la protezione dei dati personali, in considerazione della più volte rilavata natura riservata delle investigazioni difensive .
Altro aspetto importante è l’ulteriore deroga contenuta nel comma 3 dell’art. 222 disp. coord. c.p.p. per il quale, nell’ambito delle indagini svolte dagli investigatori privati ai fini della difesa penale, non si applica la disposizione dell’art. 139 T.u.l.p.s., il quale prevede che “gli uffici di vigilanza e di investigazione privata sono tenuti a prestare la loro opera a richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza e i loro agenti sono obbligati ad aderire a tutte le richieste ed essi rivolte dagli ufficiali e dagli agenti di pubblica sicurezza o di polizia giudiziaria”. Risulta evidente che l’investigatore privato, incaricato di ricercare elementi  nell’interesse della difesa, non può e non deve collaborare, in ordine ai fatti per i quali ha ricevuto l’incarico, con la polizia giudiziaria che, per gli stessi fatti, potrebbe svolgere attività antitetica e conflittuale .
Anche la giurisprudenza ha fornito una sua interpretazione in merito. La Corte costituzionale, nel 1976 nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 134 e 139 T.u.l.p.s, affermò che “una eventuale declaratoria di incostituzionalità non avrebbe avuto altro effetto che di rendere indiscriminatamente libera l’attività in questione” , così implicitamente sollecitando il legislatore ad una opportuna regolamentazione dell’attività privatistica d’investigazione .
Il trattamento dei dati raccolti deve cessare al termine delle attività demandate. Su tale aspetto sono intervenuti sia gli organi deontologici sia il Garante per la protezione dei dati personali.
Sotto il profilo deontologico, le “Regole di comportamento del penalista” dispongono all’art. 4 comma 4  che “L’incarico agli investigatori privati (…) è conferito con atto scritto, nel quale (…) il difensore indica i loro doveri: a) osservare le disposizioni di legge, in particolare quelle (…) sulla tutela dei dati personali”.
Il Garante per la protezione dei dati personali, autorità amministrativa indipendente appositamente istituita per la regolamentazione ed i controllo del rispetto della normativa sulla tutela della riservatezza, ha emanato l’Autorizzazione generale n. 6 del 31 gennaio 2002, con cui permette agli investigatori privati di trattare i dati sensibili di cui all’art. 22 comma 1 legge n. 675 del 1996, su specifico incarico di un difensore nell’ambito di un procedimento penale per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, da utilizzare ai soli fini dell’esercizio del diritto alla prova a favore del proprio assistito, ai sensi dell’art. 190 c.p.p. e della legge n. 397 del 2000.

 

4. Il rapporto tra il difensore e l’investigatore.
Il rapporto che si instaura tra il difensore committente e l’investigatore privato incaricato è di natura privatistica, inquadrabile nella figura giuridica della locatio operis, ma con effetti pubblicistici – processuali .
Si ricorda che, una volta incaricato l’investigatore privato, il difensore lo può esonerare dall’incarico, ciò sia motivando, per correttezza, la sua scelta, sia nel rispetto delle regole che disciplinano il rapporto che intercorre tra  loro .
Questo tipo di rapporto è contraddistinto delle caratteristiche della riservatezza e confidenzialità.
L’uso delle notizie apprese nel compimento dell’incarico investigativo rimane interno ai rapporti tra difensore e investigatore; quindi, sia per la previsione contrattuale, che lega l’investigatore al difensore, sia in virtù dell’art. 379-bis c.p. che punisce la divulgazione di notizie apprese per aver partecipato o assistito ad atti del procedimento penale, ed infine per l’art. 622 c.p., che sanziona la rivelazione di segreti professionali, le eventuali informazioni raccolte non possono essere divulgate; altrimenti si profilerebbero una violazione contrattuale e illeciti penali.
Una caratteristica del rapporto è che viene fornito "senza garanzia di veridicità": l'informatore assume una tipica obbligazione di mezzi, cioè quella di svolgere le sue ricerche, personalmente o a mezzo di corrispondenti, con la dovuta diligenza, e non quella di garantire la verità dell'informazione. Il professionista si obbliga a fornire notizie: queste potrebbero essere anche negative o addirittura disonorevoli nei confronti dell’assistito. Da queste considerazioni discende che la clausola di confidenzialità e la c.d. "riserva" non possono essere viste come artifici per escludere la responsabilità del informatore ma elementi essenziali e tipici del contratto, come si è venuto a configurare nella consuetudine.

 

5. L’attività dell’investigatore.
L’apporto dell’investigatore si sostanzia in iniziative personali, valutazioni e suggerimenti. 
Le attività che può compiere possono essere catalogate in due tipologie sulla base di una loro eventuale disciplina legislativa: si parla a tal fine di atti tipici e atti atipici .
Gli atti tipici esperibili dagli investigatori privati sono costituiti dal colloquio non documentato con persone informate sui fatti ( art. 391-bis comma 1 c.p.p. ) e dall’accesso ai luoghi ( art. 391-sexies c.p.p. ).
Si ritiene essere loro riconosciuta la possibilità di svolgere altri tipi di attività, non direttamente contemplati e disciplinati dalla legge, e per questo detti atipici. Tra queste attività possiamo senz’altro annoverare i pedinamenti, gli appostamenti, le riprese fotografiche e cinematografiche, l’acquisizione di notizie e documenti di libero accesso a chiunque, ad esempio presso Camere di Commercio, Conservatorie dei registri immobiliari, pubblico registro automobilistico, studi notarili, ecc.
Risulta, invece, loro inibito ricevere dichiarazioni scritte o raccogliere informazioni da documentare ai sensi dell’art. 391-ter c.p.p., poiché, come si vedrà nel capitolo successivo, tali attività sono riservate esclusivamente al difensore ed al suo sostituto, per lo “scopo di conferire loro i crismi di una maggiore attendibilità” .
Il contenuto delle informazioni raccolte nel conferire con i soggetti informati sui fatti, se pure non è trascrivibile in un verbale formale, può comunque costituire oggetto di annotazioni scritte ed anche di registrazioni magnetofoniche, consentite allorquando siano opera di persone presenti.
Stabilita l’assoluta liceità di tali registrazioni e delle relative trascrizioni, parte della dottrina ritiene che “alla loro acquisizione agli atti come prova documentale osti il divieto di documentazione previsto per gli investigatori privati dagli artt. 391-bis commi 1 e 2 e 391-ter: le informazioni così assunte potranno dunque essere utilizzate, al pari delle annotazioni, come supporto alla memoria non solo per fini meramente interni, ma pure in occasione di una eventuale testimonianza, non valendo per questi soggetti l’incompatibilità a deporre stabilità dall’art. 197 lett. d) c.p.p.” .
Come si può ben capire, i margini di autonomia, con cui si muove l’investigatore privato, potranno essere più o meno ampi, a seconda della quantità e qualità dei dati di partenza, del suo grado di competenza e professionalità, nonché del suo “affiatamento” con il difensore committente.
In ogni caso, l’azione dell’investigatore privato non dovrà essere difforme da quella richiesta dal difensore, il quale, come già detto, ha la responsabilità del mandato difensivo e della direzione delle investigazioni in favore del proprio assistito. 
Quindi l’avvocato dovrà scrupolosamente cautelarsi di fronte all’eventualità di dover rispondere, per l’operato dell’investigatore, a titolo di culpa in eligendo o di culpa in vigilando. La dottrina a tal proposito ha suggerito al difensore di provvedere ad una sottoscrizione di una polizza assicurativa per rischi professionali che preveda, con apposita clausola, anche la copertura per l’attività investigativa delegata all’investigatore  privato .
Per consentire al difensore di essere informato costantemente sull’operato del suo investigatore privato, la dottrina consiglia che quest’ultimo provveda a redigere una c.d. “nota relazionale”, su cui annoti tutte le operazioni e le fasi attraverso cui svolge l’attività investigativa: dovrà, quindi, descrivere in maniera circostanziata l’attività svolta e i risultati ottenuti, in modo da permettere un controllo, anche se ex post, sull’attività compiuta, così da consentire al difensore di studiare nuove ed ulteriori iniziative di indagine .
Parlando, adesso, della disciplina tipica, nello specifico, dell’attività dell’investigatore privato, si può notare che il nostro ordinamento dà una regolamentazione negativa: infatti non prevede espressamente tutte la attività che esso può compiere e come le può compiere, come sopra detto,  ma al contrario fissa i confini leciti di tali attività, attraverso la previsione di comportamenti ritenuti illeciti, spesso sotto il profilo penalistico.
Innanzitutto sono limiti assoluti per l’attività investigativa le libertà e i diritti costituzionalmente garantiti, il quali, come sappiamo, possono subire delle limitazioni solo in ipotesi eccezionali previste dalla stessa Costituzione  “ per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge” ex art. 13 Cost. Il codice prescrive che solo il giudice, in quanto organo terzo ed imparziale, può disporre la limitazione del diritto costituzionalmente garantito e non il pubblico ministero.
 Costituiscono un limite concreto all’attività investigativa anche alcune norme del codice penale,  quali l’art. 494 c.p. relativo alla sostituzione di persona, l’art. 614 c.p. sulla violazione di domicilio, l’art. 615-bis c.p. sulle interferenze illecite nella vita privata, l’art. 615-ter  c.p. circa l’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, gli artt. 616-623-bis c.p. sui delitti contro la inviolabilità dei segreti, l’art. 660 c.p. sulla molestia o il disturbo alle persone.
Per completezza, si ricorda che molte di queste norme penali puniscono la violazione commessa da “chiunque”, prevedendo come aggravante l’ipotesi in cui a commetterle sia “ chi esercita anche abusivamente la professione di investigatore privato”; la conseguenza sarà un aggravio di pena e il venir meno della condizione di procedibilità a querela del reato, che diviene, così, procedibile d’ufficio .
Sotto altro profilo, si ricorda che gli investigatori sono destinatari della nuova fattispecie criminosa introdotta dall’art. 379-bis c.p.p., in tema di rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale appresi per aver partecipato o assistito a un atto del procedimento stesso.

 

6. L’esame dell’investigatore privato.
L’investigatore privato può essere sentito nel contraddittorio tra le parti in merito alla attività svolta in sede di investigazioni difensive. In relazione alle informazioni assunte ai sensi dell’art. 391-bis comma 1 c.p.p., la legge 1° marzo 2001, n. 63, in tema di giusto processo e prove penali, ha previsto l’incompatibilità a testimoniare per i difensore ma non anche per l’investigatore privato, salva l’ipotesi in cui esso abbia provveduto a verbalizzare le dichiarazioni rese dalla persona informata sui fatti, ai sensi dell’art. 197 comma 1 lett. d) c.p.p.
Secondo parte della dottrina, l’investigatore può essere sentito in qualità di testimone indiretto sulle notizie raccolte durante il colloquio non documentato, nei limiti dell’art. 195 c.p.p. . Secondo la disciplina della testimonianza de relato ex art. 195 c.p.p., le dichiarazioni ottenute in sede di investigazioni difensive verrebbero introdotte nel processo in maniera diversa da quanto previsto per la polizia giudiziaria. Infatti, gli art. 351 e 357 comma 2 lett. a) c.p.p. obbligano la polizia giudiziaria a verbalizzare le dichiarazioni ricevute. I verbali, al loro volta, sono sottoposti alle regole generali in materia di contestazioni e di letture. Ne discende che, ove fosse ammessa la testimonianza  indiretta sulle informazioni acquisite si aggirerebbero le norme sulle letture e contestazioni.
Resta da chiarire se, sul piano soggettivo, esistano delle differenze tra la posizione processuale del testimone e quella dell’investigatore, e quindi quale disciplina applicare durante l’esame incrociato.
La dottrina ha evidenziato come esistano delle differenze tra il testimone e l’investigatore privato: il primo rappresenta fatta da lui conosciuti o percepiti per caso, mentre il secondo viene a conoscenza di fatti nell’espletamento di un incarico professionale .
Da quanto detto deriva che, l’investigatore, nel corso delle investigazioni difensive, non è un terzo che percepisce delle dichiarazioni provenienti da altre persone per caso, egli è un ausiliario della difesa che agisce sulla base di un incarico professionale, nell’interesse esclusivo della parte privata.
La dottrina ha osservato come si configuri una incompatibilità per l’investigatore con l’ufficio di testimone per ciò che riguarda gli atti compiuti in sede di investigazioni difensive . La soluzione proposta, in assenza di una specifica disciplina, è che l’esame dibattimentale dell’investigatore potrebbe essere fatto alla stregua di quello previsto per il consulente tecnico. Infatti, come loro l’investigatore è un soggetto facente parte dello staff dell’ufficio difensivo; egli è un ausiliario del difensore che, quando procede ad assumere informazioni ex art. 391-bis comma 1 c.p.p., agisce sulla base di un incarico professionale, impiegando esperienza, professionalità e competenze specialistiche proprie della sua professione . Quindi nel momento in cui viene escusso in dibattimento egli esprime direttamente delle valutazioni sugli esiti delle investigazioni difensive, rimando così un soggetto di parte che prospetta al giudice gli argomenti a favore della difesa.
A questo punto della trattazione bisogna tenere presente che l’investigatore privato può eccepire, durante l’esame incrociato, il segreto professionale ai sensi dell’art. 200 comma 1 lett. b) c.p.p., su quanto egli ha conosciuto per ragione della sua professione.

 

7. Il segreto professionale.
7.1. La nozione e l’oggetto del  segreto.
Preliminarmente mi sembra opportuno chiarire il concetto di segreto. Per segreto si intende uno stato di fatto, cioè un rapporto tutelato dal diritto in forza del quale una notizia relativa a determinati fatti o cose deve essere conosciuta solo da una persona o da una ristretta cerchia di persone, autorizzate alla conoscenza. Da tenere presente che la sola mancata conoscenza di un  fatto non vale di per se a rendere segreta quella notizia.
La dottrina si è chiesta se il segreto vada inteso in senso soggettivo oppure in senso oggettivo. La dottrina maggioritaria propende per la nozione oggettiva del segreto . Questo orientamento trova conferma nell’art. 622 c.p. che punisce la rivelazione o utilizzazione indebita di notizie segrete, nel caso in cui ciò crei nocumento alla persona interessata: fondamento della tutela penale sarebbe proprio la considerazione del nocumento, attuale o potenziale, che può derivare ai singoli dalla rivelazione.
Per quanto riguarda l’oggetto del segreto, occorre rilevare la stretta connessione esistente tra la norma di procedurale (art. 200 c.p.p.) e la norma sostanziale (art. 622 c.p.). Da un  lato c’è la necessità di punire la violazione, dall’altro la necessità di coerenza dell’ordinamento giuridico attraverso un delicato equilibrio tra esigenze contrapposte che si fanno sentire nel momento in cui si tratta di tutelare il segreto nel processo.
L’art. 200 c.p.p. individua l’oggetto del segreto a quanto appreso in ragione della propria professione, ufficio o ministero. Questa previsione sembra coincidere con quanto disposto dall’art. 622 c.p., che si riferisce a chi ha notizia di un segreto per ragione del proprio stato o ufficio o della propria professione o arte.
Occorre il necessario nesso di causalità tra la qualifica o l’attività del soggetto e la conoscenza del segreto. Significa che il segreto, anche se limitato a quanto comunicato in via confidenziale, si estende ad ogni ulteriore conoscenza comunque appresa a causa o nell’esercizio della professione, restando estraneo unicamente quanto conosciuto in occasione dello svolgimento della prestazione professionale mancando ogni attinenza con quest’ultima.


7.2. I limiti alla tutela del segreto professionale.
L’art. 200 c.p.p prevede per i soggetti menzionati una facoltà, e non un obbligo, di astenersi dal deporre. La scelta tra il rispetto del segreto professionale e il dovere di contribuire all’amministrazione della giustizia, è rimessa alla coscienza ed al prudente apprezzamento del professionista. Solo a quest’ultimo spetta la scelta se avvalersi o meno della facoltà suddetta, magari anche con il solo riferimento a singole domande, dovendo comunque egli ben sapere se ed entro quali limiti la sua testimonianza sarà compatibile col dovere del segreto professionale.
Questa possibilità di scelta è in linea con la norma penale incriminatrice: il reato si configura esclusivamente se la rivelazione avviene senza giusta causa e se dal fatto può derivare nocumento. In assenza di tali elementi il professionista potrà-dovrà rinunciare alla facoltà di astenersi dal deporre, senza che ciò possa comportare alcuna responsabilità penale. Anche da questo aspetto emerge lo stretto rapporto tra l’art. 200 c.p.p. e l’art. 622 c.p.


7.3. La tutela del segreto professionale.
L’art. 200 c.p.p. detta la disciplina dei limiti alla testimonianza riguardanti il segreto professionale. Il segreto professionale è uno dei diversi tipi di segreto che possono essere eccepiti durante un procedimento penale . La disciplina del segreto è frutto di un bilanciamento di  interesse operato dal legislatore. Si è dato prevalenza all’interesse alla difesa nel processo (art. 24 Cost.) rispetto all’interesse della giustizia all’accertamento della verità.
Il segreto professionale non è stato previsto dal legislatore come un divieto di rendere testimonianza su talune informazioni acquisite “per ragione del proprio ufficio”, ma come una facoltà di astensione, lasciando così al testimone facoltà di scelta . Con questa disciplina il legislatore ha risolto il conflitto tra l’obbligo generale di testimoniare ex art. 198 c.p.p.  ed il dovere di non rivelare il segreto professionale, entrambi penalmente sanzionati .
La ratio perseguita è quella di tutelare la libertà e la sicurezza dei rapporti professionali. Sulla base della considerazione della necessità o quasi necessità per tutti i cittadini, di avvalersi dell’opera di professionisti, è stato affermato che “l’interesse a garantire le condizioni indispensabili per assicurare la libertà e la sicurezza dei singoli rapporti professionali costituisce un interesse pubblico” . Quindi, occorre garantire la fiducia e l’affidamento nella riservatezza del professionista cui il singolo si rivolge.


7.4. Il segreto professionale e gli investigatori privati autorizzati.
La possibilità di eccepire il segreto professionale, per una tutela efficace del diritto di difesa, era  già riconosciuta all’investigatore privato autorizzato dall’art. 222 comma 4 disp. coord. c.p.p., che, nella sua originaria formulazione, estendeva allo stesso la tutela del segreto professionale, già prevista per il consulente tecnico dall’art. 200 comma 1 lett. b) c.p.p.; per la precisione si affermava che “Ai fini di quanto previsto dall’art. 200 del codice, l’investigatore autorizzato è equiparato al consulente tecnico”.
Con l’art. 4 della legge n. 397 del 2000 è stato modificato l’art. 200 comma 1 lett. b) c.p.p. in cui è stato annoverato anche l’investigatore autorizzato tra le categorie di soggetti abilitati ad opporre il segreto professionale “ su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero, ufficio o professione” .
Viene estesa la disciplina del segreto professionale nell’ambito dei soggetti che svolgono l’attività forense, agli investigatori privati autorizzati che vanno così ad affiancarsi agli avvocati, ai consulenti tecnici, ai praticanti avvocati ed ai notai. Si completa in tal modo, sotto il profilo delle garanzie di libertà a tutela della funzione difensiva, l’omogeneità di disciplina tra il difensore ed i suoi ausiliari .
Una mancata equiparazione di garanzie sarebbe stata manifestamente irrazionale, soprattutto a seguito del riconoscimento della piena soggettività processuale all’investigatore privato autorizzato. Infatti, in precedenza alla legge n. 397 del 2000, per gli investigatori privati nessuna disposizione di legge garantiva loro la tutela del segreto professionale.
L’investigatore privato autorizzato può opporre lo stesso segreto professionale alla richiesta di esibizione e al sequestro di atti, documenti o cose esistenti presso di essi ( art. 256 commi 1 e 2 c.p.p.) .
Agli investigatori privati autorizzati non si applica l’inciso di cui al comma 1 dell’art. 200 c.p.p., che esclude l’efficacia del segreto professionale nei casi in cui si ha l’obbligo di riferire all’autorità giudiziaria, in quanto la sua operatività è preclusa espressamente dall’art. 334-bis c.p.p., con cui si escludono i soggetti dell’ufficio difensivo dall’obbligo di denuncia dei reati di cui sono venuti a conoscenza nell’ambito dell’attività di investigazione difensiva svolta .
Ai sensi del comma 2 dell’art. 200 c.p.p., se il giudice dubita sulla fondatezza dell’opposizione del segreto per il mero scopo di esimersi dal deporre come testimone, può far procedere agli accertamenti necessari, e, in caso risulti infondata, ordina che il testimone deponga.
Il segreto professionale, compreso quello dei consulenti tecnici e degli investigatori privati autorizzati, è tutelato anche rispetto alla testimonianza de relato: l’art. 195 comma 6 c.p.p. stabilisce che i testimoni non possono essere esaminati su fatti comunque appresi dalle persone indicate nell’art. 200 c.p.p. in relazione alle circostanze in esso previste, salvo che le predette persone abbiano deposto sugli stessi fatti o li abbiano in altro modo divulgati.


7.5 .  Il segreto per gli investigatori privati autorizzati e la lacuna del codice di procedura penale.
Analizzando alcune norme del codice di procedura penale riguardanti la figura dell’investigatore privato autorizzato, mi è sorto un dubbio circa l’ambito applicativo dell’art. 200 comma 1 lett. a) c.p.p. .
Tale disposizione testualmente recita così  “ Non possono essere obbligati a deporre su quanto conosciuti per ragione del proprio ministero, ufficio o professione (…) gli avvocati, gli investigatori privati autorizzati, i consulenti tecnici e i notai”.
Prima facie sembrerebbe una disposizione esaustiva e priva di problematiche, ma adesso mostrerò perché, secondo me,  questo articolo contiene una lacuna o un difetto di coordinamento con altre disposizioni codicistiche.
Per spiegare il mio ragionamento occorre fare una breve panoramica sulla figura dell’investigatore privato.
Sappiamo che non esiste più, a seguito del nuovo codice di procedura del 1988, un solo tipo di investigatore privato nel nostro ordinamento – cioè legittimato a compere le c.d. “investigazioni civili”, quindi sostanzialmente operante nel raccogliere prove, ad esempio, in ambito matrimoniale ( es: prove del tradimento), o familiare ( es: prova che un figlio faccia uso di sostanze stupefacenti), o nel campo dello spionaggio industriale. Questa la possiamo definire la figura tradizionale dell’investigatore, la cui disciplina è contenuta nel Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza  (R.D. 18 giugno 1931, n. 773) e nel suo regolamento (R.D. 6 maggio 1940, n. 635).
Sulla base delle previsione del T.u.l.p.s. un soggetto non può svolgere di propria iniziativa, cioè di fatto, l’attività di investigazione privata, ma deve aver ottenuto la licenza dal Prefetto ai sensi dell’art. 134 T.u.l.p.s. ; quindi di seguito quando farò riferimento all’investigatore privato “civile” lo chiamerò ex art. 134 T.u.l.p.s..
Come ho già anticipato, esiste oggi nel nostro ordinamento una figura nuova di investigatore privato c.d. “autorizzato” a compiere investigazioni difensive, quindi operante in ambito penale.  Il termine “autorizzato”, che troviamo in molti articoli (art. 327-bis comma 3 c.p.p., l’art. 200 comma 1 lett. b) c.p.p., l’art. 391-bis comma 3 c.p.p.) trova la sua disciplina  e definizione nell’art. 222 disp. coord. c.p.p., secondo il quale “Fino all’approvazione della nuova disciplina sugli investigatori privati, l‘autorizzazione a svolgere le attività indicate nell’art. 327-bis c.p.p. è rilasciata dal prefetto agli investigatori che abbiano maturato una specifica esperienza professionale che garantisca il corretto esercizio dell’attività…”
Orbene, l’autorizzazione che legittima a compiere investigazioni penali è rilasciata dal Prefetto; quindi per comodità di linguaggio parlerò d’ora in avanti di investigatore ex art. 222 disp. coord. c.p.p., per riferirmi a colui che è autorizzato anche in ambito penale.
Iniziando a tirare le fila del mio ragionamento credo che possa ottenere l’autorizzazione ex art. 222 disp. coord. c.p.p. solo colui che ha già l’autorizzazione in ambito civile ex art. 134 T.u.l.p.s., perché testualmente l’art. 222 disp. coord. c.p.p. si riferisce all’ “investigatore”, e come ho già anticipato, è tale solo colui che abbia ottenuto al licenza ex art.134 T.u.l.p.s. dal Prefetto, non potendosi svolgere questo tipo di attività “di fatto” .
Quindi l’investigatore privato penale, il c.d. “autorizzato”, avrà una doppia autorizzazione: la prima, quella che definisco “base” ai sensi dell’art. 134 T.u.l.p.s. e la seconda, il cui rilascio è anche condizionato dal previo ottenimento della prima, ai sensi dell’ art. 222 disp. coord. c.p.p.
Detto questo, si può ritornare al punto di partenza del mio ragionamento, cioè l’art. 200 comma 1 lett. b) c.p.p.  e l’ambito soggettivo di applicazione del segreto professionale: tale articolo si riferisce agli “investigatori privati autorizzati”,  i quali possono opporre il segreto professionale, ove fossero chiamati a testimoniare ( visto che per tali soggetti non opera l’incompatibilità con l’ufficio del testimone ai sensi dell’art. 197 lett. d) ).
Ne discende molto chiaramente che agli investigatori privati ex art. 134 T.u.l.p.s. è preclusa la possibilità di opporre il segreto ai sensi dell’art. 200 c.p.p. su quanto da loro “conosciuto per ragione (…) della propria professione”, perché l’articolo citato richiede l’autorizzazione ex art. 222 disp. coord. c.p.p. per operare.
Circoscritta così l’operatività dell’art. 200 c.p.p. solo agli investigatori privati autorizzati ex art. 222 disp. coord. c.p.p., occorre proseguire oltre e vedere all’interno di tale categoria l’ambito di applicabilità dell’articolo in esame: è qui che secondo me c’è in incongruenza tra le norme del codice di procedura penale.
Posto che l’art. 200 comma 1 lett. b) c.p.p. fa riferimento solo “all’investigatore privato autorizzato” , mentre l’art. 327-bis comma 3 c.p.p. richiede il conferimento dell’incarico all’investigatore per avvalersi della sua opera in ambito di investigazione difensiva, mi domando se l’art. 200 c.p.p. operi per tutti gli investigatori privati autorizzati ex art. 222 disp. coord. c.p.p. indipendentemente dal fatto che abbiano o meno ricevuto un incarico difensivo.
 In altre parole, possono opporre il segreto solo per fatti conosciuti per ragione della loro professione nello svolgimento di attività investigative compiute su incarico di un difensore ai sensi dell’art. 327- bis c.p.p., oppure anche per fatti conosciuti, sempre in ragione della loro professione ma senza il previo ricevimento di un incarico?
Cercherò di chiarirmi con due esempi, che potrebbero realmente verificarsi nella pratica.
Prima ipotesi: un investigatore privato autorizzato ex art. 222 disp. coord. c.p.p. riceve da un privato l’incarico di compiere indagini – in campo civile – ad esempio, sul figlio perché teme che si droghi; e  scopre in realtà che il figlio, non si droga, ma spaccia. Se tale investigatore, riconosciuto da agenti o ufficiali della polizia giudiziaria, che in borghese stavano conducendo indagini sul traffico di stupefacenti in cui è coinvolto la persona pedinata, viene indicato al pubblico ministero e chiamato a testimoniare a dibattimento come persona informata sui fatti, può opporre il segreto professionale ai sensi dell’art. 200 c.p.p.?
 Dal testo dell’art. 200 c.p.p. secondo me sì, e per due ordini di motivi: uno positivo e l’altro negativo.
Il primo, positivo, perché l’articolo fa riferimento all’investigatore “autorizzato”, quindi secondo la terminologia del codice si fa riferimento all’autorizzazione penale ai sensi dell’art. 222 disp. coord. c.p.p., e, nel caso ipotizzato, l’investigatore ha anche l’autorizzazione penale, anche se stava svolgendo indagini in sede civile. Il secondo requisito negativo, è che l’art. 200 c.p.p. per la sua operatività non richiede che l’investigatore, oltre ad essere autorizzato,  sia altresì  “incaricato”. Se così fosse il segreto professionale potrebbe opporsi solo nei casi in cui l’investigatore venisse a conoscenza di fatti nell’espletamento dell’incarico conferito dal difensore in ambito penale.
Questa mia conclusione può essere confermata anche se prendiamo la seconda ipotesi: il caso di un investigatore privato autorizzato che svolge investigazioni penali su incarico del difensore. Sappiamo che il difensore, ai sensi dell’art. 327-bis comma 3 c.p.p., per delegare attività investigativa difensiva deve conferire l’incarico ai suoi collaboratori. Ora anche se l’art. 327-bis c.p.p. non richiede la forma scritta ad substantiam, e nemmeno nomina tale requisito, è pacifico che la forma scritta sia richiesta implicitamente se non altro ad probationem dell’avvenuto conferimento dell’incarico. Ma ad probationem nei riguardi  di chi? Nei confronti dell’autorità procedente, alla quale ai sensi del comma 2 dell’art. 222 disp. coord. c.p.p. richiede che l’incarico sia “iscritto in uno speciale registro”, e successivamente comunicato alla stessa da parte del difensore ai sensi del comma 4 dell’articolo citato, ( a partire da tale comunicazione operano le garanzie e le tutele della segretezza delle indagini e della non ingerenza nei confronti dell’investigatore privato da parte dell’autorità procedente).
Orbene, fatte queste premesse, mi chiedo se, ove il difensore non conferisce per iscritto l’incarico all’investigatore, non volendo formalizzare il loro rapporto, soprattutto nei confronti dell’autorità procedente, che così verrebbe a sapere che egli sta facendo investigazioni difensive, l’investigatore potrebbe opporre il segreto professionale se fosse successivamente chiamato a testimoniare?
In questo caso, l’investigatore privato autorizzato ha compiuto attività investigativa, limitandosi alla mera raccolta di informazioni tramite attività atipiche, come i pedinamenti. Ritengo che tale ipotesi confermi le conclusioni a cui sono giunta prima circa l’applicabilità dell’art. 200 comma 1 lett. b) all’investigatore privato autorizzato, indipendentemente dal conferimento di un incarico. Infatti, qui sono state fatte investigazioni difensive non formalizzate all’autorità procedente;  se non si ammettesse l’operatività del segreto si aprirebbe una voragine nella tutela della segretezza delle investigazioni difensive, ponendo il difensore ogni volta dinanzi ad un aut aut: conferire l’incarico scritto all’investigatore, per tutelarsi contro l’eventuale chiamata a testimoniare con il relativo obbligo di verità ( che potrebbe generare in una nuova ipotesi di testimonianza de relato  contro il proprio assistito ex art.195 c.p.p.), ma rendere così nota la notizia che si stanno facendo investigazioni difensive; oppure non conferire un incarico formale, cioè scritto, ma solo orale, per tutelare la segretezza delle investigazioni difensive e dell’eventuale pista o strategia che si sta seguendo, ma col rischio che l’investigatore privato venga chiamato a testimoniare con l’obbligo di verità.
Se consideriamo che durante la fase delle indagini preliminari il pubblico ministero può interrogare, ai sensi dell’art. 362 c.p.p., le persone informate sui fatti, le quali hanno l’obbligo di verità penalmente sanzionato (art. 371-bis c.p.), potrebbe dunque interrogare l’investigatore privato autorizzato e ottenere le informazioni circa l’attività investigativa compiuta.
Se, invece, riteniamo operante il segreto professionale indipendentemente dall’avvenuto conferimento dell’incarico, anche questa ipotesi è coperta perché l’art. 362 c.p.p. richiama una serie di disposizioni tra cui l’art. 200 c.p.p.. Così il cerchio si chiude.
Concludendo, ho parlato all’inizio di questo paragrafo di una lacuna perché secondo me il codice non è chiaro su questo aspetto e difetta di chiarezza terminologica, lasciando “scoperta” questa ipotesi da me sottolineata, e alla quale ho cercato di dare una risposta.
In ultimo, è il caso di ricordare l’impostazione offerta da parte della dottrina secondo la quale l’opposizione del segreto professionale dell’investigatore privato trovi specifica valenza qualora l’investigatore privato sia sentito come testimone in un procedimento diverso da quello in cui egli ha ricevuto l’incarico. Sulla considerazione che egli nel procedimento in cui ha svolto le sue funzioni investigative non assume lo status di testimone ma di consulente tecnico della difesa, con la relativa differente disciplina .

 

 

 

 

 

 

 

 


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Autore: Valeria Salvadori


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