3. L'annullamento parziale?
Si discute se la regola della nullità parziale stabilita dall'art. 1419, 1° co., c.c. valga anche per l'annullamento, con l'ausilio dell'analogia. Spesso si trovano precedenti che accolgono questa tesi, ragionando indirettamente sul principio della conservazione del contratto. Senonché si deve osservare che, ad un pieno riconoscimento di quella direttiva, si oppone che la tutela data con la nullità è diversa da quella dell'annullamento. Nella prima è l'atto in sé e la sua funzione che devono essere valutati, sicché ben è legittimo ritenere valida soltanto una parte di questo; con l'annullamento, invece, oggetto di tutela è l'interesse della parte a quel contratto. Sicché al di fuori dell'annullamento del contratto plurilaterale non è automatica l'applicazione dell'art. 1419 c.c. Inoltre riesce difficile ipotizzare come il sistema delle incapacità o dei vizi del consenso possa dare luogo ad un annullamento soltanto di alcune clausole del contratto e non a tutte. Probabilmente l'ipotesi può limitarsi ai vizi del consenso, qualora, in un contratto complesso, questo sia viziato soltanto in alcune sue parti. Si faccia l'esempio di un contratto che abbia ad oggetto la modifica e l'integrazione di uno precedentemente concluso, senza con ciò fare assumere al secondo il carattere della transazione. Si formuli ancora l'ipotesi che nel secondo contratto, oltre al resto, sia contenuta una ricognizione di debito, relativa alle obbligazioni nate in esecuzione del primo a favore di una parte. Se quelle obbligazioni riconosciute non sono dovute, poiché furono il risultato di un errore di calcolo o nel metodo del calcolo, il contraente che ha riconosciuto sarà ugualmente tenuto a pagarle o potrà invocare l'errore della ricognizione di debito? Propenderei per la seconda soluzione che non comporta l'annullamento del l'intero nuovo contratto, ma soltanto della clausola che contiene la ricognizione. Anche se, a ben vedere, il contraente che ha riconosciuto non sarebbe in ogni modo tenuto a pagare per il limitato effetto proprio del riconoscimento di debito. 4. Il sistema delle invalidità nel Libro V del codice civile: rinvio Come è noto, il sistema delle invalidità collegate al contratto di società per azioni segue regole diverse da quelle dettate per il contratto nel Libro IV del codice civile. Si suole comunemente affermare che le cause di nullità si convertono in cause di annullamento per effetto dell'art. 2377 c.c., fatte salve le ipotesi di illiceità della deliberazione: art. 2379 c.c. Salvo rinviare ad altra parte del presente trattato per un compiuto approfondimento della materia, l'assunto è corretto, ancorché meriti un modesto approfondimento in relazione all'art. 1418 c.c. In effetti non bisogna pensare ad una radicale eccezione alla regola, con conseguente creazione di un sistema affatto diverso da quello generale. La norma generale di riferimento prevede la nullità, salvo che la legge disponga diversamente. Dunque l'art. 2377 c.c. va letto proprio come deroga che la legge stessa ha predisposto, da valersi nei casi in cui ha ritenuto opportuno derogare. Semmai il rapporto fra gli artt. 1418, 2377 e 2379 c.c. ribadisce la opportunità di distinguere l'atto o il contratto illecito dall'atto o contratto illegale: i primi sono assolutamente insanabili, non possono essere convertiti; mentre i secondi possono dare luogo ad una nullità, ad un annullamento o ad un rimedio diverso. Ciò dipende dalla diversa portata della norma imperativa violata: nei casi di illiceità la norma violata è assolutamente imperativa, dunque non può trovare deroghe neppure all'interno del sistema legislativo; soltanto negli altri casi sono ammissibili rimedi diversi, oltre a quello generale della nullità. In definitiva, l'art. 2377 c.c. costituisce un'applicazione della regola posta dal l'art. 1418, 1° co., c.c.; l'art. 2379 c.c. costituisce un'applicazione della regola posta dall'art. 1418, 2° co., c.c. Questa soluzione trova ormai definitiva conferma nel fatto che ha finito per prevalere la tesi che vede nel voto espresso per prendere una delibera un atto esecutivo del contratto sociale. Un altro profilo che merita attenzione riguarda l'art. 2332 c.c., la norma è complessa e merita una breve descrizione. Nel primo comma dispone che, una volta avvenuta l'iscrizione della società nel registro delle imprese, le cause di nullità sono limitate agli otto casi indicati. Da ciò si deve dedurre che le eventuali altre cause di nullità dell'atto costitutivo sono sanate, non potendosi azionare alcunché, salvo la nullità delle singole clausole. Nei commi successivi, è disposto che "la dichiarazione di nullità non pregiudica l'efficacia degli atti compiuti in nome della società dopo l'iscrizione nel registro delle imprese"; e, come rafforzativo, è ulteriormente disposto che "i soci non sono liberati dal l'obbligo dei conferimenti fino a quando non sono soddisfatti i creditori sociali". Con ciò si pone una rilevante deroga al regime di nullità degli atti che, come è noto, è quello della loro inefficacia fin dall'origine. Questa deroga si chiarisce nel successivo 4° co., nel quale è disposto che "la sentenza che dichiara la nullità nomina i liquidatori". Dall'insieme di queste disposizioni si desume che, una volta ottenuto il decreto di omologa, seguito dall'iscrizione nel registro delle imprese, le cause di nullità divengono cause di liquidazione della società. Il legislatore ha ritenuto che la sanzione della nullità fosse inappropriata in un settore in cui l'interesse è quello della conclusione del maggior numero di contratti possibili, dunque si è avvalso del rimedio che garantisse la sicurezza degli atti compiuti. In questa prospettiva, anziché impiegare il rimedio dell'annullamento, ha addirittura applicato le regole della liquidazione. La logica seguita con questa norma tende ad aprire nuovi spazi nell'ambito del diritto societario, addirittura ponendo come sola conseguenza della violazione della norma imperativa l'obbligo di risarcire il danno. È il caso dell'art. 2504 quater, in materia di fusione, richiamato dall'art. 2504 novies c.c., in materia di scissione, per i quali la invalidità della fusione o della scissione non può più essere fatta valere, una volta "eseguite le formalità della fusione". In ambito societario sembra che i rimedi che colpiscono l'atto non siano i più idonei a rispondere all'esigenza di tutelare il funzionamento del sistema. Paiono più agili altri che finiscono per sanzionare il funzionamento dell'atto e non invece la sua genesi. 5. L'inefficacia per violazione di una norma imperativa La sanzione per la violazione di una norma imperativa è prevista dall'art. 1418 c.c., norma dalla quale anche l'annullabilità trova la sua giustificazione sistematica. Sicché si può ritenere che l'invalidità comporti un particolare disvalore del fatto a fronte del quale l'invalidità costituisce sanzione. Si è già ricordato come in ambito societario questo disvalore tenda ad essere monetizzato, mediante il ricorso al risarcimento del danno, come forma più idonea a soddisfare gli interessi del pregiudicato in talune vicende. Vale la pena ora di riflettere su una norma di recente introduzione, l'art. 1469 quinquies c.c., la quale pone l'inefficacia come rimedio contro l'introduzione di clausole vessatorie, facendo salva la sopravvivenza del contratto per il resto. Nel successivo 3° co., è disposto che "l'inefficacia opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice". Di norma l'inefficacia è la conseguenza della invalidità dell'atto o del contratto, qui, invece, è prevista come conseguenza immediata, senza ricorrere ad altro. Dall'esame della norma si desumono regole proprie della nullità così come dell'annullamento. La rilevabilità d'ufficio è un chiaro indice che lascia intendere che di nullità si tratti; mentre la legittimazione di una soltanto delle parti farebbe propendere per l'annullamento, seppure nell'ordinamento si rinvengano ipotesi di nullità relative. Pare quest'ultima la figura che più si avvicina a quella recentemente introdotta, seppure il legislatore non abbia voluto sciogliere il nodo, demandando all'interprete il compito di qualificare il rimedio. Incidentalmente segnalo che l'interpretazione data dell'art. 1341, 2° co., c.c., in caso di omessa esplicita sottoscrizione di una clausola vessatoria da parte del contraente, propendeva per la nullità della clausola. Raramente la giurisprudenza ha accolto la soluzione data da alcuni interpreti che, rilevando una questione di inopponibilità, concludevano per la sola inefficacia di quella clausola. Orbene si è ricordato che l'interprete deve qualificare il rimedio posto dalla norma, seppure a questa qualificazione non segua anche l'introduzione di particolari regole operazionali. In concreto, infatti, l'interprete desume dal testo normativo tutto ciò che serve per rendere efficace il divieto: la legittimazione ad agire e la conseguenza della violazione. L'impressione che si riceve è che il legislatore abbia voluto sottrarre la disciplina dall'ambito delle annullabilità speciali, con l'unico vero effetto di evitare l'applicazione della prescrizione breve. Ma questo forse non è sufficiente per approdare alla soluzione della nullità relativa. Probabilmente, anche in questo settore, il legislatore ha ritenuto inadeguato il ricorso al sistema dell'invalidità, tenuto conto proprio del connotato di disvalore sociale che caratterizza questa forma di reazione dell'ordinamento giuridico. Numerosi altri sono i casi nei quali il legislatore ha preferito avvalersi del rimedio dell'inefficacia, senza transitare attraverso l'invalidità dell'atto: l'art. 22, l. 4 giugno 1985, n. 281, a proposito delle clausole statutarie che consentono il gradimento mero nella circolazione delle partecipazioni societarie; l'art. 14, 4° co., l. 18 febbraio 1992, n. 149, successivamente modificato, prevedeva l'inefficacia dei patti parasociali, per mancata osservanza delle formalità di comunicazione secondo le formalità previste. Chi recentemente ha rivisitato il tema del l'inefficacia in rapporto all'invalidità ha constatato che questo è un rimedio autonomo, più generale e soprattutto più consono a regolare un assetto di interessi che altrimenti riceverebbe una disciplina vincolata dalla struttura del l'invalidità. Così, ad esempio, la previsione dell'inefficacia consente di stabilire nei confronti di chi l'atto è improduttivo di effetti, consentendogli invece di produrli nei confronti di coloro che devono essere protetti: è il caso delle prelazioni legali, che comportano l'inefficacia del contratto concluso in violazione del diritto del preferito, sotto il profilo dell'inopponibilità, rimovibile con l'esercizio del riscatto. Ancora la previsione dell'inefficacia consente di rendere applicabile il rimedio anche nell'ipotesi in cui la norma che la prevede sia successiva al patto. Ancora: la previsione dell'inefficacia non consente l'applicazione dell'art. 1419, 1° co., c.c., che comporterebbe la nullità dell'intero contratto; consente invece rimedi assimilabili alla convalida, che altrimenti sarebbero vietati dall'art. 1423 c.c., salvo espressa indicazione. È proprio questa la ragione per la quale il contratto concluso da falsus procurator è inefficace e non nullo e così come è per l'atto simulato. 6. La nullità e l'annullabilità: i rimedi La costruzione del sistema delle invalidità in due specie, la nullità e l'annullabilità, ha portato maggiore chiarezza sul piano sistematico alla categoria della inefficacia, nell'ambito della quale va collocata anche la inesistenza di un atto o di un contratto. Ciò ha anche contribuito a precisare meglio la portata dei rimedi apprestati per la nullità, per l'annullabilità e per l'inefficacia. Come è noto, il codice civile abr. trattava della sola nullità nell'ambito della rescissione del contratto. I rimedi dati contro la nullità erano la conferma, la ratifica e l'esecuzione volontaria dell'obbligazione (artt. 1309-1311 c.c. abr.). Un primo elemento di ambiguità era dato dal fatto che la conferma e la ratifica erano dirette contro il medesimo vizio dell'atto: la nullità appunto. In questo modo, quantomeno sul piano lessicale, in sede di rimedi veniva riprodotta la stessa difficoltà sistematica a delineare una netta demarcazione tra invalidità ed inesistenza. Sotto questo profilo il vigente codice civile ha contribuito ad apportare chiarezza, innanzi tutto distinguendo l'invalidità dall'inefficacia, successivamente distinguendo nelldella prima i rimedi predisposti per la nullità e per l'annullamento. Il primo risultato è venuto collocando la ratifica esclusivamente nell'ambito della rappresentanza in senso lato, compresa anche la gestione di affari altrui, così da evitare sovrapposizioni con la invalidità. Il presupposto per la ratifica, dunque, non è la contrarietà di un atto ad una norma imperativa, bensì la mancanza di un potere che consenta il prodursi degli effetti. Sicché la ratifica può essere definita come rimedio dato contro l'inefficacia originata da una condotta giuridica che di per sé non si giustifica. Il secondo risultato è venuto prevedendo la convalida e la rettifica come rimedi per l'atto annullabile, mentre la conversione, la conferma e la esecuzione volontaria consapevole come rimedi per l'atto nullo. Parrebbe, dunque, tutto chiarito: alla nullità seguono rimedi tipici, come del resto all'annullabilità. Senonché la previsione dell'art. 1423 c.c., secondo il quale "il contratto nullo non può essere convalidato se la legge non dispone diversamente" ha posto il problema della esistenza di una generale figura di sanatoria dell'atto quale estensione della convalida alla conferma ed alla esecuzione volontaria. Ed è questa la soluzione a cui pervengono coloro che non ravvisano "una contrapposizione ontologica tra nullità ed annullabilità, con la conseguente contrapposizione logica tra insanabilità della prima e sanabilità della seconda: la distinzione delle due categorie essendo da ricondurre esclusivamente alla disciplina giuridica di ciascuna di esse". Questa affermazione in sé condivisibile non legittima comunque la conclusione della riconduzione della conferma nella convalida, poiché la seconda presuppone sempre in capo a chi ha il potere di impugnare per annullamento il potere di convalidare. Nella conferma o nella esecuzione volontaria, invece, è un terzo che consente il prodursi degli effetti di un atto compiuto da altri, lesivo di interessi generali. È proprio dalla disciplina della nullità e dell'annullabilità che si desume la differenza tra la convalida e la conferma. Piuttosto viene da chiedersi se la spiegazione della conferma non debba essere ricercata addirittura al di fuori della contrapposizione tra nullità ed annullabilità: nel principio del nemo venire contra factum proprium. Invero chi consapevolmente da esecuzione ad una disposizione, mediante dichiarazione espressa o tacitamente, non può successivamente pentirsi ed avvalersi di un rimedio, la nullità, al quale ha deliberatamente rinunciato, poiché si troverebbe esposto all'exceptio doli generalis.
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