Nel caso posto all’esame della Suprema Corte, la Sweden & Martina S.p.a. conveniva in giudizio la Revello S.p.a. lamentando atti di concorrenza sleale perpetrati da quest’ultima per illecito storno di propri agenti di commercio. Il Tribunale di Prime Cure accoglieva la domanda mentre la Corte d’appello di Venezia, in totale riforma della sentenza di primo grado, diversamente valutando il materiale probatorio, negava la sussistenza delle concorrenza sleale non essendo stata fornita la prova che il passaggio degli agenti dalla Sweden & Martina S.p.a. alla Revello s.p.a. fosse avvenuto a seguito di pressioni o con modalità illecite e che vi fosse nesso causale tra l’uscita degli agenti e il calo di fatturato. Avverso tale decisione la società soccombente proponeva ricorso per Cassazione.
La Corte Suprema con la decisione n. 94 del 04.01.2017 accoglieva il ricorso ritenendo che in sede di gravame si era erroneamente focalizzata l’attenzione sulla prova della “pressione” esercitata sui dipendenti della società concorrente dovendosi invece far riferimento alla “strategia diretta ad acquisire lo staff” attuata dalla impresa stornante e fatta di molti comportamenti che non erano stati presi in considerazione dalla Corte di Appello tra cui l’acquisizione del Capo Area e di tutta una rete di agenti da questo gestiti, l’affermazione di un dirigente della società convenuta secondo cui la prassi era quella che la “Sweden li prepara e Revello li acquisisce”, i vantaggi economici ed organizzativi prospettati ai collaboratori della società concorrente, tutti elementi tramite cui veniva conseguito il vantaggio competitivo in danno dell’altra impresa.
La Corte di Legittimità affermava quindi “lo storno dei dipendenti da parte di un’azienda realizza un atto di concorrenza sleale allorchè sia perseguito il risultato di un vantaggio competitivo in danno dell’altra impresa tramite una strategia diretta ad acquisire uno staff costituito da soggetti pratici del medesimo sistema di lavoro entro una zona determinata, svuotando l’organizzazione concorrente di sue specifiche possibilità operative mediante sottrazione del modus operandi dei propri dipendenti, delle conoscenze burocratiche e di mercato da essi acquisite, nonché dell’immagine in sé di operatori di un certo settore. Ne consegue che, al fine di individuare tale animus nocendi, consistente nella descritta volontà di appropriarsi, attraverso un gruppo di dipendenti, del metodo di lavoro e dell’ambito operativo dell’impresa concorrente, nessun rilievo assume l’attività di convincimento svolta dalla parte stornante per indurre alla trasmigrazione il personale di quella“. (Cass. Sez. I, n. 20228 del 2013).
La Suprema Corte nella suindicata decisione ha quindi confermato il principio secondo cui il passaggio di lavoratori da una impresa ad un’altra concorrente è attività in quanto tale legittima mentre non lo è quella di crearsi un vantaggio competitivo a danno di altra impresa, svuotando l’organizzazione concorrente della possibilità di operare sottraendogli ricerca, esperienza e professionalità,
così alterando significativamente la correttezza della competizione.
La Costituzione tutela infatti, da un lato, il diritto del lavoratore a cambiare occupazione e, dall’altro, la libertà di concorrenza che consente all’imprenditore di ricercare le opportune risorse sul mercato al fine di migliorare le prestazioni della propria azienda (aertt.35 e 41), purchè la concorrenza non venga svolta “in contrasto con l’utilità sociale”, richiedendo implicitamente che tale concorrenza risponda ai requisiti di lealtà.
Tenendo in considerazione siffatti interessi, la giurisprudenza, attraverso l’applicazione dell’art. 2598 comma 3 cc., ha di volta in volta il ruolo di bilanciare e individuare i casi in cui l’interesse dell’imprenditore stornato prevale su quello degli altri soggetti.
L’art. 2598 c.c., infatti, accanto alle due ipotesi tipiche di concorrenza sleale ossia la confusione tra nomi e segni distintivi (comma 1) e la denigrazione e appropriazione di pregi altrui (comma 2), indica una un’ipotesi generale e residuale, riportata al comma 3: la contrarietà alla correttezza professionale. Quest’ultimo, sanzionando tutti gli atti “non conformi ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda”, va a ricomprendere al suo interno diverse fattispecie di illecito individuate dalla giurisprudenza, tra cui, ipotesi normalmente ricondotta è lo storno di dipendenti.
Secondo consolidata giurisprudenza di legittimità e di merito lo storno illecito di dipendenti consiste nella sottrazione dei dipendenti di un’impresa attuata non solo con la consapevolezza di danneggiare l'altrui impresa, ma altresì con la precisa intenzione di conseguire tale risultato (animus nocendi), la quale va ritenuta sussistente ogni volta che lo storno dei dipendenti sia posto in essere con modalità e mezzi tali da non potersi giustificare alla luce dei principi di correttezza professionale, se non supponendo nell'autore l'intento di danneggiare l'organizzazione e la struttura produttiva dell'imprenditore concorrente, di impedire al concorrente di continuare a competere, attesa l’esclusività di quelle nozioni tecniche e delle relative professionalità che le rendono praticabili (Cass. 6079/96; Cass 5718/96; Cass 2996/80, Cass 125/74; Cass 3763/68, Cass 1561/67, Cass 6928/83).