La Legge n. 183 del 112 Novembre 2011 ( c.d. Legge di Stabillità dello Stato) ha apportato una serie di modifiche al Codice di Procedura Civile, ed al sistema procedurale civile più in generale, che hanno interessato diversi aspetti essenziali di tale parte del nostro diritto.
Il presente studio si propone di esaminarne brevemente il contenuto con particolare attenzione su quanto il Legislatore abbia previsto in relazione agli art. 283, 351, 352, 431, 445-bis (articolo aggiunto dal numero 1) della lettera b) del comma 1 dell'art. 38, D.L. 6 luglio 2011, n. 98, coordinato con la legge di conversione 15 luglio 2011, n. 111.Tali disposizioni si applicano dal 1 gennaio 2012.).
L’analisi che ci si propone di svolgere parte dalla enunciazione delle modifiche introdotte con gli articoli 25/26/27/28 della Legge 183/2011 che qui di seguito brevemente si riassumono:
L’art. 25 della Legge 183/2011, introducendo l’obbligo di impiego della posta elettronica certificata nel processo civile, ha modificato gli artt. 125/133/134/136/170/176/183/250/366 e 518 cpc, gli artt. 173bis e 173quinquies delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile, l’art. 1 della legge 53/1994, l’art. 3 della Legge 53/1994, l’art. 4 della Legge 53/1994, l’art. 5 della Legge 53/1994;
Gli artt. 26 della Legge 183/2011 -che prevede misure straordinarie per la riduzione del contenzioso civile pendente davanti alla Corte di Cassazione e alle Corti d’Appello- e 27 della Legge 183/2011 – che prevede misure straordinarie per la riduzione del contenzioso civile pendente davanti alla Corte di cassazione e alle Corti d’Appello- hanno modificato gli artt. 283/350/351/352/431/445bis/ cpc
L’art. 28 della Legge 183/2011 che è intervenuto ancora una volta sulla disciplina del contributo unificato contenuta nel TU delle spese di giustizia (D.P.R. 115/2002), ed ha previsto l’aumento di alcuni degli importi dovuti.
In questa sede, lungi dal voler esaminare ogni più dettagliato aspetto delle modifiche introdotte, ci si pone unicamente il più umile obiettivo di verificare da vicino le innovazioni introdotte dagli artt. 26, 27 e 28 della Legge 183/2011, al solo fine di considerarne le molteplici criticità.
L’innovazione normativa è di indubbio impatto reale sulle vicende giudiziarie interessate, un indubbio impatto il quale, se apparentemente potrebbe apparire come una soluzione accelerativa dei processi civili, in effetti a parere di chi scrive cela situazioni pregiudizievoli a carico dei cittadini, che generano peraltro importanti dubbi di compatibilità costituzionale.
E del resto nessun’altra conclusione può derivare dalla analisi di tutte le modifiche introdotte se non quella del pregiudizio recato all’utente del sistema Giustizia.
Ma si veda meglio.
L’art. 283 cps è stato modificato con l’introduzione dell’ultima comma che così testualmente recita:” Se l’istanza prevista dal comma che precede è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000. L’ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio.”
All’art. 350 cpc è stata introdotta invece la seguente novella:” Il giudice, all’udienza prevista dal primo comma, se ritiene la causa matura per la decisione, può provvedere ai sensi dell’articolo 281-sexies. Se per la decisione sulla sospensione è stata fissata l’udienza di cui al terzo comma, il giudice fissa apposita udienza per la decisione della causa nel rispetto dei termini a comparire.”
All’art. 352 cpc ritroviamo il richiamo alla possibilità per il giudice d’appello di risolvere la causa ricorrendo alla disciplina di cui all’art. 281-sexies e cioè: ”Quando non provvede ai sensi dei commi che precedono, il giudice può decidere la causa ai sensi dell’articolo 281-sexies.”
Ancora nell’art. 431 cpc è stato introdotta la previsione di una sanzione pecuniaria affermando: ” Se l’istanza per la sospensione di cui al terzo ed al sesto comma è inammissibile o manifestamente infondata il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000. L’ordinanza è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio.”
Infine nell’art. 445-bis è stato introdotto un ultimo comma per il quale “La sentenza che definisce il giudizio previsto dal comma precedente è inappellabile”.
E’ stato poi introdotto il sistema per il quale in mancanza di un manifestato interesse delle parti alla prosecuzione del procedimento si prevede l’estinzione dei procedimenti civili:
- davanti alla Corte di Cassazione, ove relativi a ricorsi avverso le sentenze pubblicate prima della data di entrata in vigore della legge n. 69 del 2009 (4 luglio 2009);
- davanti alle Corti d’Appello, ove pendenti da più di 2 anni alla data di entrata in vigore della legge in esame.
Il nuovo procedimento prende avvio dall’ avviso alle parti costituite, ad opera delle cancellerie, relativo all’onere di presentare istanza di trattazione del procedimento.
Se permane l’interesse a proseguire nell’impugnazione, la parte che ha sottoscritto il mandato, entro il termine perentorio di 6 mesi dalla ricezione dell’avviso, lo dichiara con istanza sottoscritta personalmente. Le impugnazioni si intendono rinunciate se nessuna delle parti si attiva con conseguente estinzione del giudizio, dichiarata con decreto del presidente del collegio.
Infine sono stati ancora una volta modificati i contributi unificati di giustizia e Già in passato il legislatore era intervenuto sulla materia in occasione delle manovre finanziarie precedenti (decreto-legge n.98 del 2011, art. 37 e decreto-legge n. 138 del 2011, art. 35-bis).
In particolare, il comma 1, lett. a), modifica l’art. 13 del TU, inserendovi il comma 1-bis, in base al quale gli importi del contributo definiti dal comma 1 (che fissa importi diversi aumentati in ragione della tipologia e del valore della controversia) sono aumentati della metà per i giudizi di impugnazione.
Raddoppiati invece gli importi per i processi di Cassazione. In tal caso dovrà sommarsi, ai sensi del comma 2-bis dell’art. 13 del TU, introdotto dalla legge 69/2009, anche un ulteriore importo pari all’imposta fissa di registrazione dei provvedimenti giudiziari.
Il comma 3 precisa che gli aumenti di cui sopra troveranno applicazione anche alle controversie pendenti nelle quali il provvedimento impugnato sia stato pubblicato o, nel caso in cui non sia prevista la pubblicazione, depositato successivamente all’entrata in vigore della legge di stabilità.
Il comma 1, lett. b) interviene sul successivo art. 14 del TU, in tema di obbligo di pagamento del contributo unificato, e ne sostituisce il comma 3.
Viene disposto che la parte che per prima si costituisce in giudizio, che deposita il ricorso introduttivo, deve integrare l’importo unificato già versato laddove attraverso una modifica della domanda o una domanda riconvenzionale o una chiamata in causa si ottenga l’aumento del valore della causa.
A ciò è aggiunta la previsione dell’obbligo per tutte le altre parti, quando propongono domanda riconvenzionale o formulano chiamata in causa o svolgono intervento autonomo, di versare un autonomo contributo unificato determinato in base al valore della domanda proposta.
Il comma 2 dispone che il maggior gettito derivante dall’applicazione delle modifiche al contributo unificato venga destinato alle esigenze e spese del Ministero della giustizia, che si impegna ad impiegarle per assicurare il funzionamento degli uffici giudiziari, con particolare riferimento ai servizi informatici e con esclusione delle spese di personale
Il quadro normativo così innovato apre dunque il seguente scenario processuale:
a) Una istanza di sospensione della efficacia provvisoria della sentenza di primo grado aggravata da nuovi vincoli e da sanzioni pecuniarie di non trascurabile importo e, cosa ben più importante, una istanza cui si risponde con decisione presa in via del tutto autonoma dal Giudice sotto forma di provvedimento non impugnabile;
b) La possibilità che il giudizio d’appello venga risolto immediatamente “rebus sic stanti bus” con valutazione del tutto autonoma da parte del Giudice (semplicemente ove il Giudice lo ritenga maturo per la decisione) e con esclusione di qualsiasi attività di impulso delle parti.
c) L’obbligo per la parte in causa di manifestare nuovamente e personalmente l’interesse alla prosecuzione dei giudizi di appello e cassazione, in base ai limiti temporali indicati;
d) La non impugnabilità di una sentenza che definisce il giudizio di accertamento tecnico preventivo nelle controversie in materia di invalidità civile, sordità civile, handicap, e disabilità, nonché di pensione di inabilità e di assegno di invalidità disciplinati dalla Legge 222/1984;
e) L’aumento dei contributi fissi per l’introduzione dei giudizi che viene elevato della metà in fase di appello e ben del doppio in fase di ricorso per cassazione.
Davanti ad un simile quadro non occorre essere operatori del diritto per percepirne il rischio di pregiudizialità che nasconde in quanto la ratio di riduzione e di accelerazione dei contenziosi civili gravanti in fase di Appello e di Cassazione ( artt. 26 e 27) nonché di razionalizzazione delle spese di giustizia, si traduce nei fatti in una compressione del civile diritto di difesa.
Ed appare fuor di dubbio come, ancora una volta, il Legislatore abbia fatto ricadere sul cittadino la propria incapacità di gestire e controllare aspetti fondamentali della vita pubblica .
Ma si veda meglio.
La novella degli artt. 283 e 431 cpc, introduce per la presentazione della istanza di sospensione della efficacia provvisoria della sentenza di primo grado, i due ulteriori requisiti della fondatezza e della ammissibilità, rimettendo alla totale discrezionalità del Giudice la valutazione sugli stessi. Tale nuova già gravosa previsione viene ancor più resa gravosa dalla scelta del Legislatore sul provvedimento con il quale il Giudice si pronuncia sull’istanza di sospensione: ordinanza non impugnabile che esclude la possibilità di un riesame immediato della decisione del Giudice.
A tanto si aggiunga che gli importi stabiliti quali limiti minimi e massimi della sanzione applicabile -soprattutto con riguardo ai massimi- sono tali da rappresentare un valido deterrente per l’introduzione della detta istanza .
Il sistema così come introdotto non può dunque che, nella sua analisi dettagliata e generale, prestare il fianco a valutazioni di incostituzionalità, quanto meno per violazione degli artt. 3 comma 2°, 24 e 111 della Costituzione.
Infatti, ove si pongano ostacoli all’accesso alla giustizia da parte del cittadino, si violano di conseguenza le norme costituzionali a tutela dei relativi diritti del cittadino medesimo.
L’art. 3 comma 2° Cost. affermando che “E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” esprime un principio di razionalizzazione degli interventi statali nell’ottica di collaborazione dello Stato alla crescita del cittadino.
In tale principio non può trovare spazio la novella normativa di cui trattasi dal momento che essa si sostanzia in una serie di ulteriori oneri ed ostacoli posti a carico della collettività con riferimento all’esercizio del proprio diritto di difesa che non può non inquadrarsi tra i fondamenti necessari per il pieno sviluppo della persona umana.
L’art. 24 della Costituzione prevede, senza alcuna riserva di limitazione, la liberta di accesso del cittadino alla Giustizia per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi, definendo la difesa un diritto inviolabile “ Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento (…)”.
Nell’interpretazione applicativa dell’art. 24 Cost. la Corte Costituzionale ha ormai chiaramente e costantemente affermato il criterio ermeneutico per il quale l’art. 24 Cost. vieta l’imposizione di oneri o di modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale.
Afferma la Corte Costituzionale che la Costituzione, con la previsione di cui all’art. 24, ha assegnato all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi. Tale funzione è stata ribadita mediante l’introduzione dei principi di cui all’art. 111 della Costituzione. ( ex plurimis Sentenza 12 marzo 2007 n. 77)
L’art. 111 della Costituzione che prevede altro notevole principio contenuto nel richiamo ai principi del giusto processo e del rispetto del contraddittorio “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti al giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.
Il “giusto processo” va inteso come il richiamo ad un alto ideale di Giustizia ispirato al diritto naturale che si realizza nel momento in cui si attuano i valori di civiltà giuridica che in un determinato momento storico sono condivisi dalla comunità civile.
Dunque il principio del giusto processo, come vuole la Dottrina “allude ad un concetto ideale di Giustizia, preesistente rispetto alla legge e direttamente collegato a quei diritti inviolabili di tutte le persone coinvolte nel processo che lo Stato, in base all’art. 2 Cost., si impegna a riconoscere” (“Giusto processo (Diritto processuale penale)”, in Enc. dir., Aggiornamento, V, Milano, 2001, 627 ss., 628.)
Sebbene l’idea di un processo giusto fosse già desumibile da altri articoli della Costituzione, (art. 3, art. 24, art. 25), con l’espresso riferimento al “giusto processo” si è voluto creare quasi una nuova ed ulteriore categoria di garanzie costituzionali di respiro più ampio all’interno della quale dare spazio a qualsiasi principio o potere processuale ritenuto (secondo l’esperienza e la coscienza collettiva) necessario per un’effettiva e completa tutela delle ragioni delle parti.
Davanti ad un sistema di così ampio respiro delle garanzie costituzionali sulla tutela della posizione del cittadino davanti alla Amministrazione Giustizia, una norma che introduca una sanzione pecuniaria a carico della parte che abbia inteso difendere la propria posizione anche mediante una richiesta di inibitoria dell’efficacia della sentenza di primo grado, ma soprattutto una norma che rimetta all’esclusiva valutazione del Giudice la valutazione del fondamento dell’istanza senza una analisi nel rispetto del contraddittorio e, in particolare, mediante l’adozione di una decisione contenuta in un provvedimento non impugnabile, non può che qualificarsi come emessa in violazione quanto meno delle norme costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost.
Come si articola il principio di un processo giusto in un sistema in cui le decisioni rimesse alla valutazione autonoma del Giudice non sono suscettibili di impugnazione, non è dato di capire.
Come altrettanto non è dato di capire come la comminazione di una sanzione pecuniaria ( e, si ripete, di così importante importo) possa coniugarsi con lo stesso principio di giusto processo e con la libertà di esercizio di difesa.
Perché se pur formalmente la parte mantiene sempre e comunque il diritto di formulare la propria istanza è pur vero che aggravando oltremodo il rischio concreto che un soggetto va ad affrontare per ottenere la tutela delle proprie ragioni indirettamente si restringe sempre più la libertà costituzionale del cittadino sull’accesso al sistema Giustizia.
Di modo che quella limitazione del diritto di difesa che non può disporsi ritualmente (pena la comminatoria di chiara incostituzionalità) viene indirettamente riproposta secondo meccanismi per così dire “deviati” che, di fatto, producono lo stesso risultato preclusivo per il cives.
Basterà tradurre il nuovo dettato normativo nella reale esperienza del cittadino -che voglia, spinto dalla consapevolezza delle proprie ragioni, accedere ad una istanza di sospensione della efficacia di primo grado emessa in suo danno e che debba, per far questo, affrontare il rischio di una decisione del tutto autonoma e non impugnabile di rigetto dell’istanza con condanna alla sanzione pecuniaria di non poco rilievo ( minimo 250 euro massimo 10.000 euro)- per comprendere quale deterrente possa rappresentare l’innovazione normativa in esame per l’accesso alla giustizia da parte del titolare del diritto.
Le conseguenze reali di simili innovazioni normative sono talmente aberranti per la tutela del cittadino che viene spontaneo chiedersi se possano essere solo il frutto un totale scollamento tra il Legislatore Italiano e l’esperienza concreta del territorio o se sono il frutto di un ben più profondo disegno di riduzione strisciante delle libertà civili fondamentali su cui il nostro Stato è fondato.
E tale dubbio trova ancor più forza dall’esame delle norme che hanno modificato gli artt. 351, 352 e 451biscpc.
Come prima precisato, in base alla nuova formulazione dell’art.. 351 cpc il Giudice può nella prima udienza di trattazione, ritenere la causa matura per la decisione ed invitare le parti alla discussione orale come da previsione di cui all’art. 281-sexies cpc.
Si potrebbe dire che sia stata introdotta in grado d’appello una c.d. “decisione rebus sic stantibus” che preclude ogni ulteriore analisi della vicenda giudiziaria in secondo grado.
Stessa previsione si ritrova nel novellato art. 352 cpc nel caso di istanza di sospensione da esaminarsi prima della prima udienza di comparizione.
Ultima ( ma non in ordine di importanza) la novità che riguarda l’art. 451bis cpc al cui ultimo comma è stata introdotta la non impugnabilità della sentenza che definisce il giudizio.
L’esame di tali novelle non può prescindere da un richiamo sintetico ai più consolidati principi in tema di impugnazioni in ossequio ad uno dei fondamenti dei più evoluti ordinamenti giuridici rappresentato dal principio del doppio grado di giurisdizione.
Con il sistema delle impugnazioni il nostro ordinamento processuale predispone dei rimedi contro le sentenze del grado precedente affinchè la parte, rimasta in tutto o in parte soccombente in un giudizio di primo grado o già di secondo grado, possa far valere la ritenuta invalidità o ingiustizia della decisione ivi resa.
Si offre quindi alla parte la possibilità di denunziare l’errore in cui è incorso il Giudice o per un errores in procedendo ( per aver deciso in mancanza di un presupposto processuale o nonostante il verificarsi di una nullità non sanata che ha colpito un atto del procedimento ovvero per aver falsamente individuato, interpretato, applicato la norma entro cui sussumere i fatti allegati) o per errori di giudizio su quaestiones iuris o facti (per aver sbagliato nell’accertare i fatti ritenuti rilevanti).
Si tratta pertanto di atti di esercizio di potere volti a provocare un controllo sulla correttezza della sentenza già pronunciata, attraverso un ulteriore grado di giudizio all’interno però dello stesso complessivo rapporto processuale, che, iniziato con l’esercizio dell’azione, si conclude solo con la formazione della cosa giudicata.
L’appello in particolare si avvicina ad una reiterazione dell’esercizio del potere di azione ed è l’impugnazione più antica, ampia e generale con cui si possano denunciare al Giudice superiore le sentenze pronunciate in prima istanza per qualsiasi loro reale o presunto vizio sia d’attività, sia di giudizio (viene definito per questo gravame a critica libera o illimitata).
L’appello è così ampio che può dirsi rimedio generale poiché – in base alle sue antiche radici storiche- per essere ammissibile basta la qualità di soccombente di colui che lo propone unitamente alla formulazione di qualsiasi tipo di censura alla sentenza.
Come si ricava dal suo inquadramento storico, l’appello rappresenta un novum judicium e non un semplice controllo della precedente fase .
Esso è particolarmente aperto allo jus novorum ed integra così un nuovo esame della controversia che può condurre ad una sentenza che ridefinisce completamente la precedente ( limitatamente alla parte impugnata).
Così ad essere oggetto del giudizio non è la sentenza di prime cure , ma la domanda giudiziale e la sentenza di appello si esprime direttamente sull’esito da attribuire alla causa, con la sostituzione alla prima sentenza della sentenza di secondo grado che si pone come nuova decisione idonea a passare in giudicato .
Da tale inquadramento storico/giuridico dell’impugnazione e, in particolare dell’appello, si evidenzia ancor più la anomalia che, a parere di chi scrive, è stata introdotta dal Legislatore del 2011 con le modifiche di cui trattasi.
Prevedere la possibilità che in fase di appello il Giudice decida per così dire “allo stato degli atti” implica una compressione del diritto di difesa nella fase del secondo grado la quale, dunque perde la propria natura di novum judicium e la propensione a formare jus novorum, sovvertendo la teoria più classica del diritto a tale riguardo.
D’altra parte se è pur vero che il principio del doppio grado di giurisdizione è quasi sempre stato “non costituzionalizzato”, in realtà il principio del giusto processo , sempre a parere di chi scrive, sdogana il doppio grado di giurisdizione traducendolo in una vera e propria garanzia costituzionale del processo.
Infatti solo un processo che preveda nel suo sistema complessivo la possibilità di riesaminare la decisione assunta dal primo Giudice, può definirsi giusto in quanto corrispondente ai principi giunaturalistici di vaglio di una decisione che è pur sempre umana e come tale per definizione fallibile.
Sono dunque legittimi ed ancor più pregnanti i dubbi di corrispondenza ai dettati costituzionali con particolare riferimento all’art. 111 per quanto or ora detto e al 2° comma dell’art. 24 Cost.
Sottraendo la definizione del giudizio d’appello al riesame della vicenda giudiziaria di cui trattasi, si viola il sistema di garanzie costituzionali come qui descritto e si vanifica il sistema del doppio grado di giudizio alla base del nostro ordinamento, quanto meno con riferimento alla fase di secondo grado.
Ne deriva un’indubitabile compressione dei diritti di difesa del cittadino, sacrificati sull’altare della maggiore celerità della Giusitizia.
Stesse considerazioni vanno svolte in riferimento alle ultime due modifiche cui qui si vuole accennare: l’introduzione dell’obbligo di manifestare l’interesse alla prosecuzione del giudizio nelle procedure pendenti in fase di appello e cassazione e l’aumento dei contributi unificati.
In riferimento alla prima non può che evidenziarsi anche ora come l’aver introdotto l’ulteriore adempimento comporta a carico della parte un nuovo compito che, nel rendere più macchinoso lo svolgimento del giudizio, viola l’art. 3 comma 2° della Costituzione anche in considerazione che nel nuovo onere procedurale vengono coinvolti perfino i giudizi già in corso.
Sovvertendo così le regole classiche cui gli operatori del diritto sono stati educati e per le quali lo jus novorum dovrebbe riguardare fattispecie future. Prevedendosi poi come “castigo” l’estinzione del giudizio si collega alle eventuali omissioni di manifestazione di intenti la soluzione procedurale punitiva più importante della vita di un giudizio civile ( sic!).
In riferimento alla seconda va evidenziato come le spese di giustizia ( cui il contributo unificato adempie) si sono ormai tradotte, grazie ai progressivi interventi del Legislatore, in una sorta di gabella che più delle altre costituisce ormai il maggior deterrente per l’accesso al sistema Giustizia da parte del cittadino.
Pertanto ogni intervento che conduca ad ulteriori aggravi di tali spese, non può che essere considerato emesso in violazione ancora una volta dell’art. 3 comma 2° della Cost. per i motivi già accennati.
Ancor più se poi si considera la parte della novella che prevede l’applicazione dell’aumento anche per quei procedimenti che, se pur ormai di fatto conclusisi alla data di entrata in vigore delle modifiche, vedono pubblicare o depositare il provvedimento finale successivamente a tale data ( comma 3 art. 28 Legge 183/2011).
Alla luce di quanto già in precedenza detto e del tenore della novella de qua (che si commenta negativamente da sola), si ritiene superflua ogni ulteriore considerazione sul punto .
Ultima fugace considerazione va fatta sulla chiara sfiducia nella professione forense che infine traspare ( anzi chiaramente appare) dalle citate modifiche le quali sembrano quasi voler instaurare un “sistema di controllo” sull’operato degli avvocati e sul rapporto fiduciario tra questi ed i clienti.
Ma questo è ancora altro tema.
Alla luce di quanto detto, non si apparirà eretici dunque nell’affermare come (ancora una volta) il Legislatore abbia voluto risolvere problematiche intrinseche al funzionamento della macchina Giustizia, frustrando le legittime aspettative del cittadino .
Questo dunque il nuovo sfondo procedurale con il quale ci si confronterà nei prossimi mesi, questo dunque il sistema di una Giustizia che l’art. 101 Cost. vuole amministrata in nome del Popolo .