La Corte di giustizia ritiene che il pregiudizio al commercio tra Stati membri deve essere sensibile. Questa condizione non si identifica con quella dell’effetto sensibile sulla concorrenza. Può capitare infatti che un accordo restringa sensibilmente la concorrenza, senza essere suscettibile di pregiudicare il commercio tra Stati membri nello stesso modo.
Infatti, l’art. 81.1 Trattato UE stabilisce il divieto di intese (con riserva della possibile deroga ai sensi del paragrafo 3) indipendentemente dalle dimensioni delle imprese che l’hanno conclusa e della parte di mercato che esse controllano. La portata del divieto è tale che, come si è visto, la norma non richiede che la restrizione della concorrenza e il pregiudizio del commercio si verifichino effettivamente, ma si applica anche nel caso in cui gli effetti restrittivi siano puramente potenziali.
Esigenze pratiche hanno imposto un’attenuazione del divieto: è evidente, infatti, che l’applicazione dell’art. 81.1 in tutti i casi di infrazione, attuale o potenziale, richiederebbe la disponibilità, da parte della Commissione, di ingenti risorse personali e materiali; d’altro canto, un gran numero di piccole e medie imprese possono provocare solo in misura molto modesta effetti restrittivi sulla concorrenza e sul commercio. Si è così progressivamente affermata l’opportunità di delimitare il campo d’applicazione dell’art. 81.1, secondo il vecchio brocardo “de minimis non curat praetor”. Fin dalle sue prime decisioni la Commissione ha preso in considerazione, al fine di stabilire se l’art. 81.1 fosse applicabile, l’effetto “sensibile” (o meno) dell’intesa sulla concorrenza; un’analoga valutazione è stata compiuta per quanto concerne il pregiudizio del commercio. La Corte ha approvato in più decisioni questo orientamento[1]: “l’accordo non ricade sotto il divieto dell’art. 85(ora art. 81) qualora, tenuto conto della debole posizione dei partecipanti sul mercato dei prodotti di cui trattasi, esso pregiudichi il mercato in misura irrilevante”.
Sulla base di queste pronunce, la Corte ritiene che il divieto delle intese non comprende gli accordi che ostacolano solo in misura insignificante il commercio tra gli Stati membri e la concorrenza, ma sono vietati soltanto gli accordi che producono effetti sensibili sulle condizioni del mercato. Ciò ha permesso di eliminare dal campo d’applicazione dell’articolo 81.1 i casi di minore rilevanza.
Il principio del pregiudizio rilevante (o sensibile) del mercato è stato confermato in ulteriori sentenze; è stato in particolare precisato che tale effetto va ricercato sia in ordine alla concorrenza che in ordine al commercio fra Stati membri.
Tale orientamento è stato confermato in due sentenze quasi coeve[2], in relazione alle quali, la Corte statuisce che: “per essere vietato dall’art. 85 (ora art. 81), l’accordo deve pregiudicare in modo rilevante il commercio tra Stati membri ed il gioco della concorrenza. Per stabilire se ricorrono questi presupposti, si deve aver riguardo alla situazione che esisterebbe se l’accordo non fosse stato stipulato. Per accertare se un contratto contenente una clausola di esclusiva ricada sotto detto articolo, si deve dunque tenere conto in particolare della natura e della quantità disponibile dei prodotti, della posizione e dell’influenza del concedente e del concessionario sul mercato dei prodotti stessi, se l’accordo sia unico ovvero faccia parte di un’intesa complessa, del rigore delle clausole destinate a tutelare l’esclusiva o, per converso, della possibilità lasciata ad altri commercianti di trattare gli stessi prodotti mediante riesportazioni o importazioni parallele”.
La Corte ha altresì chiarito che non è necessario, per applicare l’art. 81.1, fornire la prova – che “nella maggior parte dei casi difficilmente potrebbe venir fornita” – che l’intesa effettivamente avrebbe pregiudicato gli scambi in misura rilevante. L’art. 81 richiede solo “che si provi che gli accordi sono atti a produrre questo effetto”.
Alla nozione di effetto sensibile delle intese, che è rapidamente entrata a far parte della giurisprudenza comunitaria, la Commissione si è sforzata di conferire, dopo un’iniziale esitazione, una precisa portata quantitativa, allo scopo di eliminare, in tutta la misura del possibile, le incertezze in ordine alla applicazione del divieto. La Commissione nella comunicazione sugli accordi di importanza minore “ritiene che il divieto delle intese (...) non comprende gli accordi che ostacolano solo in misura insignificante il commercio tra gli Stati membri e la concorrenza”.“Sono vietati soltanto gli accordi che producono effetti sensibili sulle condizioni del mercato, in altri termini che modificano sensibilmente la posizione sul mercato delle imprese estranee agli accordi e degli utilizzatori, ossia i loro sbocchi e le loro fonti di approvvigionamento”. La Commissione ha poi indicato in base a quali criteri quantitativi riterrà che un accordo è di “importanza minore” e quindi, a suo avviso, non soggetto al divieto. Ciò avviene “quando i prodotti oggetto dell’accordo e gli altri prodotti delle imprese partecipanti, considerati come analoghi dall’utilizzatore per qualità, prezzo ed uso, non rappresentano, in una parte sostanziale del mercato comune, più del 5 % del mercato dell’insieme di detti prodotti, e quando il fatturato totale realizzato dalle imprese partecipanti nel caso di un esercizio non supera i 50 milioni di unità di conto”. Non è più necessario che le imprese richiedano per gli accordi in questione, un’attestazione negativa o l’applicazione dell’art. 81.3, poiché la comunicazione non costituisce naturalmente una norma giuridicamente vincolante, ma solo un’indicazione di massima, che non potrebbe pregiudicare l’interpretazione della Corte, e che lascia in ultima analisi alle imprese l’onere di stabilire se un determinato accordo beneficia o no del trattamento favorevole. Il fatto che gli scambi tra Stati membri siano poco importanti a causa di elevati costi di trasporto non impedisce a un accordo, che renda questi scambi ancora più difficili, di avere una incidenza sensibile sul commercio tra Stati membri. Al tempo stesso, se una accordo abbia effetto su una percentuale considerevole (10%) delle esportazioni da uno Stato membro a un altro, ciò è sufficiente perché si concluda che la sua incidenza sul commercio interstatuale è sensibile, senza che sia necessario avere riguardo alla proporzione esistente fra tali esportazioni e il consumo totale del secondo Stato membro. Tale comunicazione, aggiornata nel 1977, nel 1986 e nel 1997, ha permesso di ridurre il numero di notifiche relative ad intese non pregiudizievoli per la concorrenza[3]. L’art. 81.1 commina il divieto dal momento in cui un accordo è suscettibile di “pregiudicare il commercio fra Stati membri”. L’impiego dell’espressione “che possano” indica che non è necessario provare concretamente gli effetti dell’intesa sugli scambi[4], quantunque è necessario esigere la prova che l’effetto sugli scambi tra Stati membri non sia puramente teorico. Dunque, non è sufficiente che sia teoricamente concepibile che l’intesa possa pregiudicare il commercio interstatuale, tenuto conto della situazione e delle circostanze esistenti al momento nel quale viene giudicata, ma è necessario che si vagli pure l’evoluzione futura che sembra capace in fatto, di influenzare negativamente il commercio, quale si possa ragionevolmente prevedere in quel momento. Poiché, per “influenza negativa” bisogna intendere la modificazione del corso normale degli scambi economici in modo contrario agli obiettivi di realizzazione e di funzionamento del mercato comune, ne consegue che, dal preciso istante in cui un’intesa conferisce il potere di influenzare il commercio interstatuale, essa in linea di principio è capace di “pregiudicare” questo commercio, anche se non è provato che al momento in cui la si esamina, i suoi effetti siano negativi.
Può accadere che, senza ratificare un’intesa esistente imponendone il rispetto da parte dei terzi, l’autorità conferisca a talune categorie di operatori economici il potere di fissare il comportamento concorrenziale che i terzi devono adottare. Operando in questo modo, essa consente a quegli operatori di conseguire lo stesso risultato di un accordo restrittivo della concorrenza, delegando loro la responsabilità di prendere delle iniziative di intervento in campo economico.
Misure di questo tipo sono state prese in considerazione nei casi GB – Inno – Bm/ATAB, Van de Haar/Kaveka, Leclerc - libri. In questi due casi, i fornitori di determinati beni o servizi si erano visti conferire, attraverso precise norme giuridiche, il potere di fissare unilateralmente i prezzi che i loro acquirenti erano tenuti ad osservare al momento della rivendita. La Corte pur evitando nel primo caso di pronunciarsi con risolutezza (GB – Inno) e pur arrivando ad una risposta negativa nel secondo (Kaveka), nel caso Leclerc - libri ha lasciato invece intendere che una legislazione nazionale che consenta agli editori di fissare unilateralmente i prezzi di vendita che i librai sono tenuti a rispettare, giungendo così a rendere inutili comportamenti rientranti tra quelli vietati dall’art. 81.1, potrebbe essere contraria all’art. 5 del Trattato. Essa non ha tuttavia preso posizione sul merito della questione, ma la dottrina più autorevole deduce dalla sentenza Leclerc - libri che, nei settori in cui la Commissione ha chiaramente delineato la politica comunitaria di concorrenza, gli Stati non potrebbero, senza violare l’art. 5 del Trattato, adottare misure che consentano alle imprese di raggiungere in altro modo, risultati contrari a quella politica.
Secondo una giurisprudenza costante, perché un'infrazione alle norme del Trattato UE sulla concorrenza si possa considerare intenzionale, non è necessario che l'impresa sia stata conscia di trasgredire tali norme, ma è sufficiente che essa non potesse ignorare che il suo comportamento aveva come scopo la restrizione della concorrenza[5]. Così, per esempio, un accordo che restringa la concorrenza potenziale tra imprese in grado di importare o esportare nella Comunità sarà suscettibile di pregiudicare il commercio tra Stati. Nel caso Salonia si discuteva della compatibilità con l’art. 81 di un sistema selettivo per l’accesso alla rivendita di giornali in Italia. Alla domanda se un tale sistema che riguardava esclusivamente la distribuzione della stampa italiana, fosse suscettibile di pregiudicare il commercio fra Stati membri, la Corte risponde che il fatto che siano considerati solo i prodotti nazionali non impedisce che “un sistema di distribuzione a circuito chiuso, che si applichi alla maggior parte dei punti di vendita di giornali e periodici nel territorio nazionale, può incidere, qualora questi punti siano allo stesso tempo quelli in cui vengono normalmente smerciati i prodotti provenienti dagli altri Stati membri, anche sulla distribuzione di questi ultimi”. Tuttavia per ricadere nell’art. 81.1, queste ripercussioni debbono essere sensibili. A questo fine, bisogna accertare, da un lato, se il mercato dei giornali stranieri possa avvalersi, per la messa in vendita nella zona territoriale considerata, di canali di distribuzione diversi da quelli disciplinati dall’accordo e, dall’altro, se la domanda dei suddetti prodotti sia rigida nel senso che non subirebbe variazioni sostanziali a causa della messa in vigore e della decadenza dell’accordo di cui trattasi. Nei primi anni ’70 una certa dottrina (Ulmer) aveva proposto di interpretare l’espressione “che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri” in modo da ricomprendere tutte le intese suscettibili di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi del Trattato UE, indipendentemente dalla considerazione se queste siano tali da restringere gli scambi tra Stati membri in senso stretto. Il criterio da adottare per l’applicazione delle norme antitrust avrebbe dovuto fondersi sulla rilevanza comunitaria dell’intesa.
Oggi se si tiene conto dell’interpretazione larga data dalla giurisprudenza alle nozione di “commercio” e di “pregiudizio”, così come del fatto che è sufficiente che l’intesa sia “suscettibile” di avere questo effetto, sembra proprio che si possa concludere che tale tesi faccia ormai parte del diritto positivo.
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[1] Sentenza Volk/J. Vervaecke S.P.R.L. del 9 luglio 1969
[2] Sentenze Carillon/Firma Höss Maschinenbau KG del 6 maggio 1971 e Béguelin Import Co./S.A.G.L. Import Export del 25 novembre 1971
[3] Sentenza Société de vente de ciments et bétons SA/Kerpen & Kerpen GmbH e Co. KG del 14 dicembre 1983
[4] Sentenza British Leyland/Commissione dell’11 novembre 1986
[5] Sentenza NV IAZ International Belgium e altri/Commissione dell’8 novembre 1983