Com'e' noto, il Ministro del lavoro e della Previdenza Sociale ha di recente emanato - di concerto con il Ministro della Sanita' - un decreto denominato " LINEE GUIDA PER L'USO DEI VIDEOTERMINALI ", cosi' ottemperando, se pur con un ritardo di cinque anni, a quanto previsto, in via programmatica, dall'art. 56 co.3 del D.lgs. 626/94. I principali quotidiani economico finanziari, riportando tempestivamente il testo della disposizione, hanno salutato l'entrata in vigore del decreto sottolineandone - forse in maniera avventata - l'immediato valore precettivo sanzionatorio, per poi occuparsi pero' unicamente del risvolto tecnico di tale normativa. Alcun commento e' stato invece espresso sugli effetti giuridici che dall'applicazione del decreto possono promanare. In particolare, nessuno per quanto si sappia si e' addentrato, allo stato attuale, sulla disamina della natura giuridica delle disposizioni di cui al provvedimento in oggetto, al fine di una loro possibile sistemazione tra le leggi penali stricto sensu intese o in alternativa tra le regole cautelari di comune esperienza richiamate dall'art. 43 co.3 c.p. quale parametro per l'eventuale addebitabilita' di una responsabilita' penale a titolo di colpa c.d. specifica. Tralasciando dunque in questa sede di soffermarci sulle possibili, apprezzabili soluzioni di carattere tecnico, che indubbiamente tale provvedimento potra' apportare in materia di Sicurezza ed Igiene sul Lavoro, con cio' riconoscendo al legislatore un indubbio sforzo per l'adeguamento del nostro sistema prevenzionale a quelli piu' evoluti presenti in altri paesi europei, si vogliono qui affrontare alcuni spunti problematici, di rilevanza penale che, in ipotesi, dall'applicazione di questo provvedimento, potrebbero emergere. Occorre preliminarmente anticipare che nella questione prospettata assumono rilievo centrale due disposizioni del D.lgs. 626/94, piu' precisamente: l'art. 52 che al co.1 definisce in capo al datore di lavoro l'onere di analizzare - all'atto della valutazione del rischio di cui all'art. 4 co.1 - i posti di lavoro, con particolare riguardo sia ai rischi per la vista e per gli occhi, che ai problemi legati alla postura ed all'affaticamento fisico o mentale o infine alle condizioni ergonomiche ed igienico ambientali; mentre al secondo comma sancisce in capo al medesimo soggetto l'obbligo di adottare le misure piu' idonee per ovviare ai rischi riscontrabili in base alle valutazioni di cui al precedente comma. l'art. 56 che nei primi due commi prevede a carico del datore di lavoro l'obbligo di fornire ai lavoratori le informazioni e la formazione riguardanti le misure applicabili al posto di lavoro, in base all'analisi dello stesso di cui all'art. 52, nonche' le modalita' di svolgimento dell'attivita' a videoterminale ed alla protezione degli occhi e della vista; mentre stabilisce in via programmatica al co.3 l'emanazione - ad opera dei Ministeri sopra citati - di un decreto ( per l'appunto l'ormai emanato D.M. 2/10/2000 ) per la definizione di una guida d'uso dei videoterminali. Cio' premesso, una prima considerazione sulle disposizioni qui indicate attiene agli effetti giuridici, in particolare alla disciplina sanzionatoria prevista dallo stesso D.lgs. 626/94; infatti per espressa previsione dell'art.89, la violazione degli artt. 52, co.2 e 56, co.1 e 2 - ad opera del datore di lavoro e dei dirigenti - integra gli estremi che configurano un illecito penalmente rilevante, richiamando a carico degli stessi una responsabilita' penale di tipo contravvenzionale. Ci si chiede allora se, alla luce del D.M. 2/10/2000, le " linee guida " partecipino alla formazione del precetto della legge penale speciale de qua, cosi' formandone un tutt'uno con la medesima, o se le stesse debbano considerarsi norme extrapenali, come d'altronde emergerebbe dalla stessa dizione usata dal legislatore, quindi soltanto un possibile criterio tecnico cognitivo, che agevoli il datore di lavoro nella doverosa opera di adeguamento dei posti di lavoro dotati di personal computer o per l'uso degli stessi ad opera dei lavoratori. Come si puo' facilmente intuire, la differenza non e' di poca cosa, atteso che in quest'ultimo caso si versa pianamente nella sfera del "penalmente irrilevante" in quanto i comportamenti di cui alle " linee guida " si configurano come in facolta' (e non in obbligo) al datore di lavoro, mentre ben diversa soluzione si deve adottare qualora si riconosca carattere precettivo alle indicazioni del D.M. 2/10/2000, in quanto le stesse vengono allora ad assumere in toto rilevanza penale. Gia' ad una prima lettura del decreto ci si avvede del fatto che le disposizioni in esso espresse sono testualmente definite " indicazioni ". Risulta perlomeno singolare che il legislatore abbia abbandonato la consueta terminologia (obblighi, oneri, doveri) adottata in ogni corpo legislativo in cui sia presente una se pur minima disciplina sanzionatoria per addentrarsi in pericolose ed inappropriate perifrasi. Peraltro, ad una lettura piu' approfondita delle disposizioni del decreto che qui si commenta, emergono locuzioni quali: " sufficientemente ampia ", " possibilmente diverso dal bianco ", "indicativamente fra 70 e 80 cm.", " non troppo cedevole ", " qualora fosse necessario " (punto 2 del D.M. 2/10/2000), e ancora: " per quanto possibile ", " se presente ", " e' opportuno ", " si raccomanda ", " e' utile al riguardo " (punto 5 e 6 del D.M. 2/10/2000), che stridono palesemente e mal si conciliano con gli ormai consolidati principi del nostro diritto penale. E' appena il caso di rilevare infatti come, tra i principi cardine dell'odierno diritto penale, sia posto in particolare rilievo il principio di determinatezza (o tassativita') della fattispecie penale. La moderna dottrina - in questo confortata dalla piu' attenta giurisprudenza di legittimita' - ha infatti ormai da molto tempo elaborato un concetto, peraltro pienamente condivisibile, che postula la formulazione del precetto penale in modo preciso e determinato. Affinche' possa dirsi rispettato il principio di legalita' ( altro principio fondamentale del diritto penale, addirittura di rilevanza costituzionale ai sensi del co.2 art. 25 Cost. ) infatti, non basta che il legislatore delinei il fatto reato o comunque il comportamento antigiuridico, ma e' altresi' necessario che tali ipotesi criminose siano sufficientemente precisate, cosi' da desumersi con facilita' cio' che e' punito e cio' che, viceversa, e' penalmente lecito. Addirittura autorevole dottrina ( Fiandaca - Musco, Mantovani, Delpino ) rileva come, pur non essendo espressamente riportato nella Carta Costituzionale, il principio di determinatezza assurga a co-principio fondamentale, dotato nei confronti del principio di legalita' di pari dignita', tanto da doversi ritenere che quest'ultimo verrebbe svuotato di ogni rilievo se il legislatore, con l'uso di espressioni generiche ed indeterminate, rimettesse di fatto al giudice la concreta individuazione della fattispecie criminosa. Ne', a parere di chi scrive, l'impasse qui rilevata puo' essere rimossa ricorrendo, nel caso di specie, ai c.d. " elementi normativi ", cioe' a quelle espressioni di comune esperienza che, solo apparentemente, si pongono in conflitto con i criteri di determinatezza e tassativita' e che sono utilizzati dal legislatore con riferimento a norme giuridiche o sociali ( si pensi ad espressioni quali: altruita' della cosa, limitata entita', grave entita', misura rilevante dell'alterazione ). Gli elementi normativi, infatti, hanno un significato ricavabile da altri rami del diritto, o rinviano alla pratica diffusa nella collettivita' in cui l'interprete opera, e come tali, non impongono al giudice alcun onere esorbitante dal normale compito di interpretazione attraverso il procedimento ermeneutico di cui al primo comma dell'art. 12 delle preleggi. Ben diverso ci sembra invece il caso proposto alla nostra attenzione dal decreto de quo, dove a parere di chi scrive - e sempre nella ipotesi che tale provvedimento debba ritenersi integrante i precetti penalmente rilevanti di cui agli artt. 52 e 56 - le espressioni utilizzate dal legislatore assumono una genericita' ed una indeterminatezza tali da permettere una inammissibile discrezionalita' nella loro interpretazione, cosi' configurando in ipotesi estrema, addirittura una manifesta illegittimita' costituzionale della norma per contrasto con i principi poc'anzi illustrati. Un utile strumento di paragone ci viene fornito dal corpo legislativo di maggiore tradizione in materia prevenzionistica, dove ben diversa e' l'attenzione e lo scrupolo adottati dal legislatore in fase di specificazione dei parametri che assumono cosi' dignita' di norma cogente in materia; si pensi, solo per fare qualche breve esempio, all'art. 320 del D.P.R. 547/55 che definisce inderogabilmente le altezze minime delle linee elettriche in ambito aziendale ( 2,5 m, 3,5m, 5m ), o ancora all'art. 6 del D.P.R. 303/56 che fissa i limiti minimi per l'altezza, cubatura e superficie dei locali chiusi destinati al lavoro nelle aziende industriali, disposizioni queste ovviamente penalmente sanzionate in caso di loro inosservanza. Ma anche qualora non si volesse sposare la tesi che qui si sostiene, resterebbe comunque il dubbio che disposizioni (rectius, linee guida) cosi' formulate, possano facilmente essere alla merce' dei piu' svariati orientamenti interpretativi e discrezionali ad opera di coloro i quali (funzionari ispettivi degli enti di controllo competenti), hanno il compito di verificare nell'esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria di cui all'art. 55 c.p.p., l'adempimento delle misure previste dalla legge, prescrivendo se del caso sanzioni amministrative, comunque con l'obbligo di segnalare la notitia criminis alla Procura della Repubblica ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 20 co.4 del D.lgs. 758/94 e dell'art. 347 c.p.p. Ebbene, non e' chi non veda come, nel caso di specie, si realizzi in concreto, anche se non formalmente, un'adesione irrituale all'opera del tutto discrezionale degli enti di vigilanza e controllo, circostanza questa non dissimile dal fenomeno del rinvio ad una fonte secondaria non legislativa, che configura una tipica norma penale c.d. in bianco, come tale caratterizzata da un precetto generico, insufficientemente determinato ab origine. E' appena il caso di ricordare che la Corte Costituzionale, chiamata ad esprimersi in materia, ha espresso con la sentenza 282/1990 la considerazione che un rinvio all'atto amministrativo, da parte della legge penale, quand'esso permetta una pronunciata discrezionalita' ai fini della individuazione degli elementi essenziali del fatto tipico, puo' determinare una palese violazione del principio costituzionale della riserva di legge, trattandosi di un rinvio al potere esecutivo allo scopo di incidere proprio sulla formulazione degli elementi costitutivi della fattispecie astratta di reato. Non si ritiene azzardato allora ipotizzare, nel caso di specie e anche se in via del tutto subordinata, proprio il pericolo di un'indebita ingerenza del potere esecutivo (le Aziende sanitarie Locali) nel momento cruciale della interpretazione della fattispecie di reato, compito questo che non puo' che essere affidato unicamente all'organo giudiziario. Infine si ritiene di dover affrontare, seppur brevemente, un'ulteriore questione che, pur non avendo riscosso particolare interesse, a parere di chi scrive pare degna di rilievo. Ci riferiamo cioe' alla definizione della natura giuridica dei reati di cui all'art. 89, per violazione degli artt. 52, co.2 e 56, co.1 e 2. In specie, se non e' controversa - in quanto espressa nello stesso nomen iuris della norma - la tipologia del reato (contravvenzione), e' invece dubbia la sua sistemazione tra i reati di danno o tra quelli di pericolo. Si ritiene, visto anche il dettato degli articoli sopracitati, che si debba propendere per quest'ultima categoria; d'altronde la ratio che sottende a tali disposizioni e' proprio quella di prevenire i rischi per l'incolumita' e la salute del lavoratore (rischi per la vista e per gli occhi, possibile insorgenza di problemi derivanti da una scorretta postura o dall'affaticamento fisico o mentale, ecc). Cio' detto, se nel caso di specie si deve parlare di reati di pericolo, questi piu' propriamente sono riconducibili alla partizione dei reati a pericolo astratto o presunto, in quanto il legislatore incrimina una condotta presumendone " iuris et de iure " la pericolosita', la cui sussistenza in concreto non e' necessaria per l'esistenza del reato (il legislatore infatti pone l'accento sui rischi e non sull'evento, e tali rischi ulteriormente sono configurabili in astratto, potendosi per ipotesi anche non realizzare fenomenologicamente, pur in presenza della violazione di legge). Se tale e' la connotazione che deve attribuirsi ai medesimi, non puo' sottacersi allora un qualche dubbio di costituzionalita' degli stessi, proprio perche' conformemente alla migliore dottrina, si e' del parere che almeno in alcuni casi, i reati di pericolo astratto o presunto tolgono spazio al giudice nella valutazione della concreta offensivita' dei comportamenti costituenti reato. Del pari ci si chiede come sarebbe possibile elevare a dignita' di precetto penale un insieme di "suggerimenti" peraltro non indirizzati unicamente al soggetto garante per eccellenza della sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro, cioe' il datore di lavoro, bensi' anche ai lavoratori. Se infatti ci si sofferma, per esempio, sulle indicazioni di cui al punto 5 del presente decreto, ci si accorge che il legislatore si rivolge in alcuni casi al datore di lavoro, mentre in altri postula la collaborazione, se non un vero e proprio obbligo di autotutela, del prestatore di lavoro (si pensi ad espressioni quali: " distogliere periodicamente lo sguardo dal video per guardare oggetti lontani " o ancora " durante le pause ed i cambiamenti di attivita' previsti, e' opportuno non dedicarsi ad attivita' che richiedano un intenso impegno visivo "). Sarebbe una contraddizione in termini prevedere l'adempimento sanzionato solo a carico del datore di lavoro per una condotta parimenti riconducibile all'atteggiamento psicologico del lavoratore. Ne', varrebbe affermare che gia' l'art.5 del D.lgs. 626/94 prevede degli obblighi a carico del prestatore di lavoro (pur nella veste di creditore fondamentale del dovere di sicurezza ), in quanto conformemente alla dottrina si ritiene che la ratio sottesa all'art. 5 sia quella di sanzionare le condotte antigiuridiche del lavoratore che mettano in pericolo o ledono altri lavoratori, mentre la palese finalita' di cui al punto 5 del D.M. 2/10/2000 ci sembra essere appunto l'autotutela del lavoratore stesso. Ammettere a questa stregua una responsabilita' unica del datore di lavoro in ipotesi nelle quali venga peraltro acclarata la corresponsabilita' del lavoratore porterebbe l'interprete sulle tortuose e non sempre percorribili strade del concorso di reato proprio non esclusivo, nel quale pero' solo l'intraneus ( datore di lavoro ) verrebbe chiamato a rispondere del fatto, mancando invece una norma che sanzioni penalmente la condotta dell'extraneus ( in ipotesi, il lavoratore ); insomma una sorta di carenza di imputabilita' o peggio l'esistenza di un'immunita' che non trova in questo caso fondamento nel nostro sistema legislativo penale. O addirittura una sorta di responsabilita' per fatto altrui, ormai da molto tempo espunta dal nostro ordinamento giuridico. Se a queste considerazioni si aggiunge il fatto che, come noto, il reato contravvenzionale prevede espressamente ai sensi dell'art. 42 u.c. c.p. la punibilita' anche in caso di condotta soltanto colposa ( al contrario delle ipotesi delittuose dove la regola e' il dolo ) si capisce come gli artt. 52 e 56 del D.lgs. 626/94 alla luce dell'interpretazione che qui si contesta del D.M. 2/10/2000 possano assumere - in alcuni casi - la dirompenza di una miscela esplosiva. I possibili problemi qui brevemente elencati vengono invece risolti se al D.M. 2/10/2000 si attribuisce un significato giuridico diverso, riconoscendogli unicamente - come peraltro traspare dall'accezione del titolo stesso - valore di prescrizione cautelare, come tale rappresentativa di un insieme di regole tecniche utilizzabili per desumere la diligenza e l'attenzione del soggetto obbligato all'onere di sicurezza, ma assolutamente avulso dalla legge penale speciale. Per questa via riesce allora facile (o perlomeno non difficile) concepire il provvedimento de quo proprio alla stregua di quei regolamenti, ordini o discipline che sono richiamati dall'art. 43 co.3 c.p. e la cui inosservanza permette di muovere al suo autore ( ed a certe condizioni ) un rimprovero penalmente sanzionato a titolo di colpa c.d. specifica. Di piu', l'ipotesi che qui si sostiene agevola l'interprete nel superamento della paventata configurabilita' del fatto come reato a pericolo presunto, che come noto anticipa la soglia di punibilita' al momento della condotta omissiva. Questo rischio viene allora a cadere, in quanto la disposizione codicistica limita la punibilita' del fatto alla sola ipotesi della verificazione dell'evento dannoso quale lesione del bene giuridico della salute e non anche alle ipotesi di semplice inosservanza della leges artis, quando da tale condotta non derivi alcuna offesa di rilievo penale. Appare chiara allora la differenza tra la tesi piu' sopra esposta e quella che in questa sede si sostiene. Nel primo caso - e con tutte le riserve che possono avanzarsi su di una interpretazione della norma confliggente con i principi fondamentali di dritto penale - per effetto dell'implicito richiamo di cui agli artt. 52 e 56 D.lgs.626/94, le disposizioni del decreto ministeriale assumono forza di legge penale e come tali configurano una fattispecie omissiva astratta, il cui momento consumativo coincide con la semplice inosservanza delle stesse. Per converso l'orientamento da noi proposto permette di " posticipare " al momento e solo al momento della realizzazione dell'evento lesivo il perfezionamento dell'illecito. Con cio' non si intende assolutamente svilire la portata del decreto qui commentato, ma soltanto riportarlo alla dimensione che necessariamente gli e' propria, cioe' di un insieme di regole tecniche (e di comune esperienza) al quale il datore di lavoro deve senz'altro fare riferimento, ma che in caso contrario - e si ribadisce, sempre che dall'omissione non derivi un evento lesivo - non integrano assolutamente in via immediata una fattispecie di reato. In conclusione, a parere di chi scrive, non possono essere ammesse, almeno con l'attuale testo del decreto, soluzioni che permettano, a totale discrezione degli organi di vigilanza di contestare in via preventiva ipotetiche inosservanze delle indicazioni in esso contenute, queste rilevando ai fini di una responsabilita' penale solo a seguito di un evento lesivo dell'incolumita' o della salute del lavoratore e sempre che ne venga acclarata la relazione causale con la condotta omissiva del datore di lavoro. L'auspicio e' allora diretto all'istituendo Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, a cui nella prossima legislatura saranno trasferite (ai sensi del D.lgs. 30/7/1999, n. 303 di riforma dell'organizzazione del Governo) le funzioni dell'attuale Ministero del Lavoro e della previdenza sociale e della Sanita', perche' voglia meglio definire la materia al fine di rimuovere i dubbi e le incertezze qui brevemente espressi.
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