In data 8 settembre 2011 è stata depositata la sentenza n. 18348 con cui i giudici della prima sezione della Corte di Cassazione avevano, in data 21 aprile 2011, condannato un ex curatore fallimentare al risarcimento del danno per inesatto adempimento delle proprie funzioni nell’ambito della procedura concorsuale. Veniva così confermata dagli ermellini la decisione dei giudici di merito.
In particolare, all’ex curatore è stato contestato di non aver tempestivamente receduto, durante il suo incarico professionale, da un contratto locativo dei locali aziendali della fallita, mantenendo così in vita l’obbligazione di pagamento dei relativi canoni.
Ma non solo. All’ex curatore è stato altresì contestato di aver consentito alla fallita la prosecuzione dell’attività imprenditoriale. Tra l’altro, senza che gli introiti confluissero all’attivo fallimentare. Insomma, oltre al danno la beffa.
Sin dal primo grado, la difesa dell’ex curatore, per quel che a noi qui interessa, ha fatto leva sull’interpretazione letterale, restrittiva, dell’art. 38, comma 2, Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Legge Fallimentare). Si è tentato, infatti, di correre ai ripari eccependo che il convenuto aveva a suo tempo lasciato l’incarico in forza di proprie dimissioni, anziché per impulso dell’autorità giudiziaria ex art. 37 l. fall.[1]
Per capire meglio, al secondo comma del sopracitato art. 38 si legge che “[d]urante il fallimento l'azione di responsabilità contro il curatore revocato è proposta dal nuovo curatore, previa autorizzazione del giudice delegato, ovvero del comitato dei creditori.”[2]
In poche parole, la difesa del convenuto puntava alla dichiarazione d’inammissibilità dell’azione risarcitoria promossa dal nuovo curatore, sostenendo che la vicenda non fosse da ricondurre al suddetto articolo in virtù di un’interpretazione prettamente letterale dello stesso, volta a restringerne il campo d’applicazione al solo caso di revoca del curatore.
Per di più, il convenuto ricordava, a supporto della propria difesa, l’avvenuta approvazione del rendiconto. Evento a carattere asseritamente preclusivo dell’azione di responsabilità di cui si discute.
L’impianto difensivo messo in piedi dall’ex curatore non ha però convinto i giudici nel corso di tutto il processo, tant’è che in ultimo grado è stata, in buona sostanza, confermata la condanna al risarcimento del danno patito dal ceto creditorio.
Tale giudizio è frutto di un’argomentazione con cui i giudici hanno inteso riconoscere il carattere (naturalmente) elastico dell’art. 38, comma 2, l. fall.
In effetti, per le ragioni riportate nel paragrafo successivo, l’interpretazione estensiva della norma appare la più corretta, dal punto di vista logico, e più in armonia con il corpo normativo che disciplina la materia fallimentare.
2. La parola dei giudici di Cassazione
Prima di illustrare le motivazioni con cui la Corte di Cassazione ha deciso di confermare la condanna risarcitoria dell’ex curatore, è interessante evidenziare un particolare aspetto connesso all’esercizio dell’azione di responsabilità.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 38, legge fallimentare, l’iniziativa processuale spetta unicamente al nuovo curatore, fermo restando che questi debba ottenere il placet del “giudice delegato, ovvero del comitato dei creditori”.
La presenza nel testo della congiunzione alternativa “ovvero” è stata oggetto di varie interpretazioni.
C’è chi reputa sufficiente l’autorizzazione richiesta ad uno solo dei due organi sopra menzionati. A ben riflettere, si tratterebbe della tesi più in linea con l’interpretazione letterale, principio d’ermeneutica, che in questo caso non appare poi così fuori luogo da poter essere trascurato.
Restando agganciati a questo primo orientamento, nel caso in cui si sia deciso per una richiesta rivolta ad entrambi gli organi, la mancata concessione da parte di uno di questi, secondo alcuni autori, non paralizzerebbe comunque l’esercizio dell’azione di responsabilità, data la posizione di asserita parità che tali organi assumono[3]. Altri, invece, propendono per la via del reclamo al fine di uscire dall’impasse creato dalla mancata concessione dell’autorizzazione da parte di uno dei due organi interpellati[4].
Altri ancora ritengono più opportuno che il nuovo curatore si rivolga ad entrambi gli organi, consapevole comunque di poter esercitare l’azione di responsabilità in forza anche di una sola autorizzazione, e ferma restando la via del reclamo da parte di qualunque soggetto interessato avverso il provvedimento che concede o nega l’autorizzazione o avverso la sua omissione, con eventuale sospensione della procedura già innescata in forza di una sola autorizzazione.[5]
Dall’altra parte, l’orientamento più rigido esige il rilascio della doppia autorizzazione, giustificando tale necessità sulla base del diverso valore assunto dal “benestare” del giudice delegato rispetto a quello del comitato dei creditori. Difatti, il primo organo garantirebbe la legittimità degli atti, mentre il secondo certificherebbe l’opportunità della decisione del curatore, titolare dei compiti gestori nel corso della procedura (infra par. 3).
Veniamo ora ai passaggi di maggiore interesse contenuti nella sentenza in esame. I giudici, soffermandosi su talune circostanze specifiche, hanno categoricamente rigettato una limitazione del campo d’applicazione di una norma, frutto di una superficiale interpretazione letterale, come avvenuto nella vicenda in esame.
La prima questione affrontata dai giudici nasce dal fatto che all’art. 38, secondo comma, l. fall., si legge di un’azione di responsabilità promossa nei confronti del curatore revocato.
Nonostante sia menzionata la sola ipotesi della revoca, gli ermellini chiariscono che tale indicazione non è da considerarsi “tassativa, bensì solo normale”. Essi statuiscono giustamente che sia da sussumere sotto questa fattispecie normativa astratta anche l’ipotesi in cui il curatore abbia lasciato il proprio incarico sulla base di dimissioni. Come è accaduto nel caso di specie.
A ben riflettere, non prendere per buona la tesi sposata dai giudici d’ultimo grado significherebbe svilire la ratio della norma e impoverirne l’efficacia. Difatti, se si limitasse l’applicabilità della norma al solo caso della revoca del curatore si arriverebbe paradossalmente a legittimare l’elusione della legge, dal momento che ciascun furbo curatore, fiutando il rischio di responsabilità, non esiterebbe un istante a dimettersi dall’incarico prima dell’emersione di un qualsiasi danno conseguenza della sua imperizia.
Detto ciò, è stato appalesato che il presupposto per l’esercizio dell’azione di responsabilità in commento è da rinvenirsi in una vera e propria violazione dei propri doveri da parte del curatore, anziché semplicemente nell’avvenuta revoca dello stesso.
L’altra questione, anch’essa connessa all’interpretazione letterale della stessa norma, consiste nell’indagine sul carattere del rapporto tra approvazione del rendiconto e azione di responsabilità.
In altre parole, l’avvenuta approvazione del rendiconto di gestione osta all’esercizio dell’azione di responsabilità contro il curatore?
Nel caso di specie l’ex curatore ha eccepito l’inammissibilità dell’azione in questione in quanto preclusa dal fatto che il rendiconto, da egli presentato prima delle proprie dimissioni, fosse già stato approvato senza che in quella sede fosse stata promossa alcuna contestazione nei confronti della sua persona.
Il riferimento specifico è all’art. 116, l. fall., richiamato dall’ultimo comma dell’art. 38 della medesima legge, in cui si legge che “il giudice [dopo che il curatore gli ha presentato l’esposizione del rendiconto di gestione] ... fissa l’udienza fino alla quale ogni interessato può presentare le sue osservazioni o contestazioni”. L’art. 116 cit. si conclude statuendo che “[s]e all’udienza stabilità non sorgono contestazioni … il giudice approva il conto con decreto […]”.
Ebbene, anche su questo punto della difesa i giudici hanno avuto da ridire.
In effetti, è stato chiarito che il giudizio di rendiconto di cui all’art. 116, l. fall., è da considerarsi semplicemente la sede naturale in cui promuovere l’azione di responsabilità nei confronti dell’ex curatore, senza presunzione d’esclusività. E ciò “in forza di connessione assoluta, ex lege: data l’ammissibilità della scissione del controllo più propriamente contabile da quello gestionale”.
In virtù di tale considerazione, non può ritenersi preclusa l’azione di responsabilità esercitata al di fuori del giudizio sul rendiconto gestionale del curatore: né che l’azione sia esperita prima né che lo si faccia dopo tale giudizio[6].
Da ultimo, per mero tuziorismo, si fa notare come questa conclusione sia in sintonia con quanto normativamente stabilito in relazione all’approvazione del bilancio di società per azioni[7].
3. La figura del curatore e la natura della sua responsabilità
A titolo introduttivo di questo paragrafo bisogna ricordare che una tra le più interessanti novità della riforma del diritto fallimentare[8] risulta essere, senza dubbio, la rivisitazione dei ruoli assegnati ai soggetti coinvolti nella procedura concorsuale.
Nel nuovo diritto fallimentare si apprezza un equilibrio tra gli organi coinvolti, frutto principalmente: 1) del ridimensionamento del ruolo del giudice delegato, privato del potere direzionale e oggi titolare principalmente della funzione di vigilanza sul rispetto delle regole procedurali; e 2) del corrispondente potenziamento della figura del curatore, titolare, oggi in via autonoma, di compiti di direzione e amministrazione all’interno dell’iter fallimentare.
A comprovare quanto sopra detto vi è il novellato art. 31, l. fall., al cui primo comma si legge: “[i]l curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni ad esso attribuite”[9].
Emerge quindi un giudice delegato non più motore della procedura, bensì relegato a ruolo di vigilante anziché direttore[10].
Concentrandoci sulla figura del curatore fallimentare, l’art. 30, l. fall., afferma che: “il curatore, per quanto attiene all’esercizio delle sue funzioni, è pubblico ufficiale”[11].
In virtù di tale qualifica, il professionista che assume l’incarico di curatore non svolge un’attività c.d. ”libera", cioè nei confronti di un cliente e regolata dalle norme che presiedono al contratto d'opera professionale intellettuale, ma deve altrettanto con sicurezza ritenersi che egli esplichi un compito, rientrante nell'attività professionale della sua categoria”. Egli, perciò, rimane “un privato, che svolge, nell'ambito della sua attività professionale, un incarico giudiziario, in relazione al quale incarico svolge pubblici poteri”.[12]
Detto ciò, il suo rapporto con la Pubblica Amministrazione non è riconducibile al contratto di lavoro subordinato, né al contratto d’opera professionale. Il curatore, scelto tra gli iscritti in albi professionali[13], assume una doppia veste, dal momento che resta un privato che svolge un incarico giudiziario, in qualità di pubblico ufficiale.
Per quanto riguarda la responsabilità dell’organo in questione, l’art. 38, al suo comma 1, stabilisce che esso è responsabile quando non “adempie ai doveri del proprio ufficio, imposti dalla legge o derivanti dal piano di liquidazione approvato, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico”[14].
Come risulta chiaramente dal testo della norma, il nuovo disposto dell’art. 38 non fa più riferimento alla diligenza del buon padre di famiglia, ex art. 1176, co. 1, cod. civ., bensì a quella, di maggior spessore, del professionista, ex art. 1176, co. 2, cod. civ.[15]
Si tratta di una novità che conferma il punto di vista da tempo affermatosi in dottrina[16].
Altra novità è l’agganciamento della diligenza professionale non solo alla legge, ma anche al piano di liquidazione[17], restando esclusa la possibilità di agire avverso il curatore in relazione al merito delle proprie decisioni.
Prima di proseguire oltre, si precisa che per poter agire contro il curatore è ovviamente necessario che, a prescindere dalla natura della sua responsabilità, sussistano i seguenti elementi: l’intenzionalità della condotta[18], il verificarsi del danno, e il nesso causale fra questi elementi.
Quanto al profilo di responsabilità del curatore che a noi più interessa, ossia per i danni arrecati al patrimonio fallimentare (massa dei creditori), la dottrina maggioritaria propende per la natura contrattuale.[19]
Tra le ragioni a sostegno della suddetta tesi vi è, in primis, la natura di mandato rivestita dall’incarico affidato e accettato dal curatore, ossia un contratto con cui il professionista si obbliga ad agire nell’interesse della giustizia e dei creditori del fallito[20]. Si tratta, a ben vedere, di un rapporto riconducibile all’art. 1170 cod. civ.
In secondo luogo, la previsione di una “diligenza professionale” con cui il curatore deve eseguire la propria prestazione, commisurata alla “natura dell’incarico”, ha senso solo se si parla di responsabilità contrattuale.
Altra ragione è che la responsabilità da mandato è conseguenza dell’inadempimento di doveri, a differenza di quella da atto illecito che nasce dalla contravvenzione a divieti[21].
L’ipotesi menzionata non esaurisce però la casistica.
Difatti, avverso il curatore è possibile agire anche per il pregiudizio economico da questi arrecato, non al patrimonio fallimentare, bensì a un singolo creditore o a un terzo estraneo alla procedura[22], o ancora al fallito[23].
Il danneggiato, diretto interessato, in tal caso dovrà agire ex art. 2043 cod. civ. (responsabilità extracontrattuale) e direttamente nei confronti del curatore e del patrimonio personale dello stesso.
In queste ultime ipotesi, estranee alla disciplina dell’art. 38 l. fall., non saranno necessari: la cessazione dall’incarico del curatore (revoca o dimissioni!), la presentazione del rendiconto di gestione, l’autorizzazione del giudice delegato o del comitato dei creditori (supra par. 2). [24]
4. Note conclusive
I giudici coinvolti nel caso in commento, di merito e di legittimità, hanno avuto il gran merito (mi scuso per il gioco di parole!) di porre un argine a certe difese che se tollerate avrebbero messo a serio rischio il sistema giustizia riferito alla materia risarcitoria in ambito fallimentare.
Basti pensare al già menzionato rischio di elusione della legge se le dimissioni non fossero ricomprese nell’ambito applicativo dell’art. 38, co. 2, l. fall.
Mi trovano d’accordo le tesi abbracciate dagli ermellini, che hanno come denominatore comune il rigetto di un’interpretazione meramente letterale e quindi restrittiva della suddetta previsione normativa.
Ciò, tra l’altro, per una questione di giustizia.
A ben riflettere, non è concepibile pensare che in capo al curatore fallimentare sussista, in seguito alla riforma della materia fallimentare, un fascio di poteri così qualitativamente consistente senza però controbilanciarlo con un sistema di responsabilità tale da garantire la completa tutela, in primo luogo, ai soggetti (i creditori) nell’interesse dei quali il curatore stesso, nell’ambito delle sue funzioni, ha il dovere di agire.
Un’interpretazione puramente letterale dell’articolo in esame, volta al contenimento del suo campo applicativo, non fa altro che indebolire il sistema di tutele della massa dei creditori danneggiati dalla condotta negligente del curatore.
Per concludere, azzardo una metafora che, se letta bene, può far capire il nocciolo del discorso. Escludere dall’ambito operativo dell’art. 38 cit. l’ipotesi dell’ex curatore dimissionario sarebbe, per la massa dei creditori, un po’ come dirsi proprietario di un cane da compagnia senza però possedere un guinzaglio. Nonostante le regole di condotta ad esso “impartite” si rischierebbe di perderlo di vista alla prima distrazione.
Bibliografia:
1. Il nuovo art. 37 statuisce che:
“1. Il tribunale può in ogni tempo, su proposta del giudice delegato o su richiesta del comitato dei creditori o d'ufficio, revocare il curatore.
2. Il tribunale provvede con decreto motivato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori.
3. Contro il decreto di revoca o di rigetto dell'istanza di revoca, è ammesso reclamo alla corte di appello ai sensi dell'articolo 26; il reclamo non sospende l'efficacia del decreto”.
L’articolo in questione è stato modificato dal D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (in vigore dal 16 luglio 2006), che ha apportato anche l’aggiunta del nuovo terzo comma. Il testo previgente prevedeva che:
“1. [i]l tribunale può in ogni tempo, su proposta del giudice delegato o su richiesta del comitato dei creditori o d'ufficio, revocare il curatore.
2. Il tribunale provvede con decreto, sentiti il curatore ed il pubblico ministero.”
[2] Vale la pena di ricordare la sentenza di Cass. civ., Sez. I, 5 aprile 2001, n. 5044, in Il Fallimento, 2002, 57, con nota di Capocchi, in cui è stato dichiarato che tale azione, “in considerazione della natura del rapporto, equiparabile al mandato”, si prescrive nel termine decennale, che “non decorre prima della sostituzione del curatore, a nulla rilevando che l'illecito rimonti ad un tempo notevolmente anteriore, per il fondamentale principio che la prescrizione comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.)”. Conformemente già Cass. civ., Sez. III, 4 ottobre 1996, n. 8716 e Cass. civ., Sez. I, 11 febbraio 2000, n. 1507.
[3] D’Attore, sub art. 38, in Nigro e Sadulli (a cura di),La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, 246.
[4] Ruggiero, in La legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2007, 290.
[5] G. Verna, La responsabilità del curatore fallimentare, in Rivista dei dottori commercialisti, 2010, 1, 169.
[6] A proposito del giudizio sul rendiconto di gestione, nella sentenza di Cass. civ., sez. I, 5 ottobre 2000, n. 13274 si legge che: “[i]l giudizio che si instaura, ai sensi dell’art. 116 l. fall., in caso di mancata approvazione del rendiconto di gestione del curatore può avere legittimamente ad oggetto non soltanto gli errori materiali, le omissioni ed i criteri di conteggio adottati, ma anche l’accertamento delle responsabilità del curatore medesimo, ai sensi dell’art. 38, comma 2, stessa legge, ma l’esercizio di tale azione non costituisce un effetto normale ed automatico della mancata approvazione del conto, né implica deroghe alle regole sul procedimento stabilite per il giudizio di cognizione ordinario”. Sempre in merito al giudizio in questione, Cass., sez. I, 10 settembre 2007, n. 18940:“ Il giudizio di approvazione del rendiconto presentato dal curatore ha ad oggetto oltre alla verifica contabile anche l'effettivo controllo di gestione e può estendersi all'accertamento della personale responsabilità nel compimento di atti pregiudizievoli per la massa o per i singoli creditori; in quest'ultimo caso il diniego di approvazione deve essere preceduto dal concreto riscontro di tutti i requisiti di riconoscimento della responsabilità, incluso il pregiudizio eventualmente cagionato alla massa o ad uno dei creditori”. In senso conforme alla prima parte di questa massima, Cass. 19 gennaio 2000, n. 547 e Cass. 14 ottobre 1997, n. 10028.
[7] Ci si riferisce in particolare all’art. 2434 cod. civ., che statuisce come segue:”[l]’approvazione del bilancio non implica liberazione degli amministratori, dei direttori generali, dei dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari e dei sindaci per le responsabilità incorse nella gestione sociale”. Sulla stessa scia, seppur in tema di conto corrente, si pone la Cass., sez. I, 19 marzo 2007, n. 6514:“la mancata tempestiva contestazione dell'estratto conto da parte del correntista nel termine previsto dall'art. 1832 c.c. rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti solo sotto il profilo meramente contabile, e non preclude pertanto la contestazione della validità e dell'efficacia dei rapporti obbligatori da cui essi derivino”. Conformemente, Cass., 18 maggio 2006, n. 11749 e Cass., 5 maggio 2006, n. 10376.
[8] Tale riforma è entrata pienamente in vigore in data 1 gennaio 2008, in virtù del D.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, Disposizioni integrative e correttive al r.d. 16 marzo 1942, nonché al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa.
[9] Il vecchio primo comma dell’art. 31, l. fall., prevedeva quanto segue: “[i]l curatore ha l’amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la direzione del giudice delegato”.
[10] Cfr. Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo, sub art. 25.
[11] Il curatore mantiene questa qualifica, sebbene in alcuni casi (i.e. esercizio provvisorio o affitto d’azienda) prenda il posto del fallito nell’amministrazione del patrimonio.
[12] In questi termini Cass. civ., Sez. III, 15 luglio 2005, n. 15030.
[13] Ex art. 28, legge fallimentare.
[14] L’affidamento dei compiti di direzione e amministrazione al curatore fallimentare ha portato alcuni autori a rilevare talune analogie tra la sua responsabilità e quella dell’amministratore di società di capitali di cui all’art. 2392, co. 1, cod. civ. Altri ancora hanno ritenuto più plausibile l’accostamento con quella del liquidatore di società ex art. 2489, co. 2, cod. civ., pur tuttavia rinviando, quest’ultimo articolo, alla responsabilità degli amministratori. Si veda sul punto G. Verna – S. Verna, La liquidazione delle società di capitali, Padova, 2009, 116 ss.
[15] Il testo precedente, nella sua prima parte, statuiva quanto segue: “[i]l curatore deve adempiere con diligenza ai doveri del proprio ufficio.”
[16] Cfr. Santini, in Commentario, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1977, 25 ss.; Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1996, 122.
[17] Dalla lettura dell’art. 104-ter il piano di liquidazione risulta essere “una fattispecie a formazione progressiva”, nonché “momento di raccordo operativo” tra curatore e comitato dei creditori, che in tale sede detiene poteri nettamente più incisivi rispetto a quelli del giudice delegato, che svolge il solo controllo di legalità sull’atto. Così si è espresso De Crescienzo, La responsabilità del curatore fallimentare: la nuova disciplina, in Il Fallimento, 2009, 4, 380.
[18] La responsabilità contrattuale del curatore sarà ricondotta all’art. 2236 cod. civ., ai sensi del quale nel caso in cui la prestazione comporti problemi di particolare complessità, il professionista ne risponderà solo per dolo o colpa grave.
[19] Tra tutti, Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Assago, 2007, 263; Ruggiero, in La Legge fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2007, 290; Serao – Ruvolo, in Fallimento e altre procedure concorsuali, diretto da Fauceglia e Panzani, Padova, 2009, 333.
[20] Adempimento tipico di tale mandato è, per esempio, la periodica elaborazione da parte del curatore di un rapporto sulla gestione, che viene poi inviato ai creditori e all’autorità giudiziaria (art. 33, ultimo comma, l. fall.).
[21] G. Verna, La responsabilità del curatore fallimentare, op. cit., 116 ss.
[22] Per esempio, per le irregolarità del curatore nei confronti di quel creditore non inserito, dallo stesso curatore, nel suo progetto di riparto. Oppure quando il curatore non ha provveduto (o lo ha fatto tardivamente) ad agire in via cautelativa in relazione ad alcuni beni del fallito, e da ciò ne è scaturito un danno per un soggetto terzo.
A proposito di quest’ultima fattispecie, ne approfitto per ricordare che il curatore, una volta in possesso dei beni del fallito, ne diviene custode a tutti gli effetti e con tutti gli obblighi che ne derivano.
[23] Per esempio, se il curatore con la sua condotta ha danneggiato beni del fallito rimasti estranei alla procedura fallimentare.
[24] Cass. 23 luglio 2007, n. 16214, in Mass., 2007, 1321.