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Gli effetti giuridici riflessi della cessione di ramo d'azienda
In materia giuslavoristica, assistiamo, ormai da diverso tempo, ad una evoluzione della disciplina che - in linea con le attuali istanze di globalizzazione del mercato del lavoro - discostandosi sempre più dalla tradizionale politica intesa alla tutela " ad oltranza " del posto di lavoro, ha oggi lo scopo di realizzare compiutamente i canoni della flessibilità occupazionale.
Tale fenomeno pero', se idealmente trova la sua massima espressione nel concetto di mobilita' interaziendale del lavoratore, nei fatti si traduce spesso nel (per certi versi opposto) fenomeno di una mobilita' dell'azienda che definiremo "interdatoriale".
Cio' si traduce in sostanza nel fenomeno del trasferimento dell'impresa, o di una sua parte, che trova collocazione regolamentare nell'art. 2112 c.c., cosi' come novellato dalla legge 428/90.
Non si vuole in questa sede ripercorrere l'evoluzione dell'istituto principale, peraltro già ampiamente commentato dalla più autorevole dottrina, quanto soffermare brevemente l'attenzione sulle applicazioni " in minus " della disciplina sul trasferimento d'impresa, in particolare per ciò che concerne il fenomeno della c.d. cessione del ramo d'azienda.
E' noto come nella prassi, prima ancora che nella legislazione o nella contrattazione collettiva, stia sempre più prendendo piede nelle realtà produttive, l'istanza (o la necessita') di focalizzare le sinergie aziendali sul core business naturale dell'impresa, demandando ad altri ( società di servizi cessionarie ) il compito di svolgere alcune funzioni ordinariamente organizzate all'interno dell'impresa (si pensi all'area facility, all'assistenza legale e fiscale, agli acquisti, al centralino, ecc. ).
E' questo un fenomeno che - comunemente definito di esternalizzazione - trova fondamento nel proliferare delle società di outsourcing, che offrono all'imprenditore gli stessi servizi, considerati non strategici per l'azienda, proponendosi di rilevare l'intero contesto funzionale organizzativo aziendale per poi offrirlo (dall'esterno) all'imprenditore cedente.
Ci si chiede allora se tale fenomeno possa essere facilmente ricondotto nello schema classico di cui all'art. 2112 c.c., o se invece, la sua disciplina debba trovare esaustiva collocazione per tramite dell'opera evolutiva della giurisprudenza di legittimità.
A tale questione non può non darsi una risposta affermativa, nel senso di riconoscere - a dispetto dello stesso nomen iuris della disposizione citata - valore precettivo all'art. 2112 c.c. adeguatamente interpretato pero' dal " diritto vivente " della Suprema Corte.
In concreto, il problema che ci accingiamo a risolvere, e' il seguente: acclarato che il legislatore riconosce al titolare dell'impresa il diritto di alienare l'azienda, nel contempo garantendo ai lavoratori ivi impiegati una tutela reale, avverso le sempre possibili ipotesi di simulazione contrattuale intesa a liberarsi da forza lavoro in esubero, e' possibile configurare giuridicamente il diverso fenomeno di dismissione parziale dell'azienda? E quali ne sono i requisiti fondanti?
Se per il primo aspetto non sussistono più dubbi allo stato attuale, attesa la prassi ormai costante e consolidata nel nostro mercato del lavoro, peraltro avallata da molteplici decisioni giudiziarie, il vero punctum dolens risiede invece nella seconda questione, soprattutto alla luce di possibili strumentalizzazioni che potrebbero nascere sia da parte datoriale che da parte dei prestatori di lavoro.
Il problema impone in particolare una disamina sulle diverse implicazioni giuridiche che possono configurarsi per un verso dall'alienazione di un settore ben definito ed autonomo dell'azienda, composto da beni e da lavoratori gerarchicamente organizzati, che come vedremo puo' essere legittimamente scorporato da questa, e venduto ad altra impresa; dall'altro dalla diversa ipotesi di vendita limitata soltanto a parte dell'organico relativo alla funzione aziendale ceduta.
In quest'ultimo caso, e' innegabile, può residuare nell'interprete qualche dubbio legato all'ipotetico intento fraudolento dell'impresa cedente, inteso ad aggirare l'impianto normativo che disciplina - ad esempio - il licenziamento collettivo per riduzione di personale.
E' d'altra parte lo stesso legislatore che, a chiusura di un sistema procedurale inteso a tutelare la forza lavoro ceduta, esclude all'art.47 comma 4 legge 428/90 che il trasferimento d'azienda, o la cessione di un suo ramo, costituisca motivo di licenziamento.
Si evince cosi', e ulteriormente, la ratio propositiva dell'impianto normativo che qui si commenta, destinata ad operare contro ed in antitesi alle possibili ipotesi di risoluzione del tutto discrezionale del rapporto di lavoro quand'esse non siano previste dal nostro ordinamento giuridico.
Per quanto concerne invece la spinosa questione relativa ai presupposti necessari e sufficienti ad integrare la cessione del ramo di azienda, non puo' essere in questa sede sottaciuta la diversità di pareri ed indirizzi che muove e divide la dottrina e la giurisprudenza.
Ad una lettura tout court della legge 428/90, che come noto ha novellato l'art.2112 c.c., emerge - al comma 6 - l'ammissibilità di una parziale cessione del personale impiegato nella funzione alienato.
Dalla disposizione qui commentata e che recita testualmente [ … I lavoratori che non passano alle dipendenze dell'acquirente, hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che quest'ultimo effettua entro un anno dalla data del trasferimento …] e' possibile, quale argomentum a contrario, concludere che, se il legislatore ha ritenuto opportuno regolamentare l'ingresso successivo alle dipendenze del datore cessionario, cio' non e' che la riprova dell'ammissibilità giuridica di un trasferimento " a singhiozzo " o comunque parziale dei lavoratori ceduti.
Senonchè l'ultimo capoverso dello stesso comma, complica l'interpretazione del precetto, disponendo che nei confronti dei lavoratori predetti ( quelli cioè che non passano subito alle dipendenze dell'imprenditore acquirente ), non trova applicazione l'art. 2112 c.c.
La giurisprudenza, chiamata più volte a decidere sull'argomento, pur nella frammentarietà e nel non sempre univoco suo orientamento e' comunque riuscita ad enucleare alcuni importanti principi in materia.
Basilare sembra al riguardo l'assunto espresso dal giudice di merito (Pretura Roma, 15 gennaio 1997) che ha affermato che il trasferimento di un autonomo ramo d'azienda, cioè di singole unita' produttive, rientra nella fattispecie di cui all'art. 2112 c.c. quando le stesse siano suscettibili di costituire idoneo e compiuto strumento di impresa
Il concetto qui sviluppato, appartiene quindi a quelle articolazioni aziendali che, per la loro autonomia, sono funzionalmente idonee ad espletare in tutto od in parte l'attività di produzione di beni e servizi dell'impresa, della quale costituiscono elementi organizzativi; in questo caso e solo in questo caso e' ammissibile l'applicazione del 2112 c.c circoscritta ai lavoratori addetti al settore ceduto ( Cass.Civ. sez.lav., 18/5/95, n.5843).
La magistratura giudicante si attesta quindi su posizioni per cosi' dire di "compartimentazione aziendale"; il riconoscimento della fattispecie traslativa di parte dell'azienda viene infatti riconosciuta laddove non sia in discussione il trasferimento omnicomprensivo del settore ceduto.
Emblematica e' a questo riguardo la decisione del Tribunale Bologna che, argomentando a contrario nella sentenza ERG Petroli c. Societa' Oli Renault Italia, ha escluso la configurabilità della disposizione de quo, ogniqualvolta la cessione del settore aziendale non comporti l'alienazione dei debiti, dei crediti, dei beni mobili o immobili, delle materie prime o dei prodotti finiti relativi al settore aziendale ceduto (Trib. Bologna 21 febbraio 1990 ).
E' allora tutto il patrimonio del settore oggetto di trasferimento che deve passare di mano, e non singoli cespiti o singoli dipendenti.
Emerge cioè dalle massime giurisprudenziali, un orientamento rigoroso che ammette l'applicazione del precetto di cui al 2112 c.c. quando, non solo tutto il personale funzionalmente e gerarchicamente deputato al ramo aziendale - dal primo dirigente, all'ultimo dei collaboratori - segue le sorti del settore alienato (Cass. Civ. sez.lav., 21/5/92 n.6103), ma anche quando ne viene acclarata l'autonomia ed indipendenza patrimonale, atteso che l'azienda sia suddivisibile in piu' complessi organizzati di beni, ciascuno dei quali, in caso di acquisto di autonomia rispetto all'originaria struttura unitaria, integri gli estremi dell'impresa.
Ciò naturalmente va coordinato con la piena ed incontestabile libertà dispositiva e negoziale del capo dell'impresa, che ben potrà trasferire una parte dell'azienda trattenendo presso di se' ( tutti ) i lavoratori che già prestavano la propria opera nell'ambito della funzione ceduta.
Cosi' intesa, la questione qui dibattuta assume una connotazione assolutamente legittima e conforme alla ratio della disciplina del trasferimento d'impresa.
A ben vedere, sono proprio gli effetti riflessi - cioè gli effetti giuridici che si ripercuotono in via mediata sul personale trasferito - che risultano, alla luce dell'interpretazione che qui si afferma, perfettamente in linea con lo spirito "garantista" che anima la disposizione de quo.
Il 2112 c.c nella sua accezione attuale, ha infatti lo scopo di tutelare i lavoratori "ceduti" da possibili fenomeni fraudolenti che, realizzando ipotesi collusive tra simulato imprenditore cedente e simulato imprenditore subentrante, eluda di fatto le disposizioni sui licenziamenti collettivi.
E' naturale quindi che i diritti riflessi dei lavoratori assurgano in realtà a diritti principali che possono subire pregiudizio da una vendita d'impresa simulata.
Al di la' delle importanti e senz'altro condivisibili decisioni della giurisprudenza e' nostro parere che la giustificazione ed i limiti a cui deve essere assoggettata l'ammissibilità di tale istituto, vadano anche ricercati nel contemperamento degli interessi in gioco.
E' evidente che, nel caso di specie emerga con forza il diritto alla disponibilità dell'impresa da parte del suo titolare, che ne legittima la possibile vendita, affitto, locazione ecc.; e' altrimenti palese pero' che, a certe condizioni, assurga a coprincipio fondamentale l'intuitu personae che contraddistingue nel singolo rapporto di lavoro, l'interesse del lavoratore ad adempiere la propria prestazione di lavoro, a favore di quello e solo quel datore di lavoro.
La negazione di questo principio comporterebbe l'affermazione di una indiscriminata sostituibilità del debitore ( imprenditore ) di un rapporto contrattuale, seppur di lavoro, che non trova invece conferma nell'odierno ordinamento giuridico.
L'equilibrio tra questi due interessi confliggenti ( l'interesse del datore di lavoro di vendere liberamente un settore della sua impresa e quello del lavoratore di non essere ceduto simulatamente a soggetti insolventi ) può essere allora facilmente trovato nella "dimensione" del trasferimento.
Cioè in quella serie di presupposti e di " indizi " che rilevino ai fini di una presunzione, anche se iuris tantum, di legittimità dell'operazione di cessione di ramo d'azienda.
In definitiva, mentre la vendita omnicomprensiva del settore dismesso, con beni, crediti, debiti, personale dirigente, impiegatizio, operaio, legittimerà in pieno una operazione di tal fatta, lo stesso non potrà affermarsi per una vendita limitata ad esempio solo al personale del settore, ne' tantomeno a parte di esso ( solo gli impiegati ma non l'organico di vertice del settore stesso ), perchè nel caso di specie, e sulla scorta della giurisprudenza esaminata, non sarebbero integrabili gli estremi di una cessione di ramo d'azienda ex art. 2112 c.c., con passaggio diretto dei dipendenti dal cedente al cessionario, ma bensì un recesso individuale o plurimo del rapporto di lavoro, con conseguente instaurazione di un nuovo rapporto con l'imprenditore subentrante.
La considerazione finale che può allora trarsi, e' che le tipologie giuslavoristiche prospettabili nel caso di specie, diverse per applicazione, non possono che integrare effetti giuridici naturalmente diversi.
Mentre nel caso di scorporo ed alienazione di un ramo aziendale munito di autonomo core businness, di beni e funzioni connotative del settore in oggetto, e soprattutto organizzato con le risorse umane esaustive di quella funzione, si realizzerà in pieno la disciplina e le disposizioni di cui al 2112 c.c., tanto che i dipendenti continueranno a lavorare, senza soluzione di continuita', presso l'azienda o parte di essa, alle dipendenze del cessionario, nel caso in cui il trasferimento di ramo d'impresa comporti solo una parziale cessione del personale ivi impiegato, la fattispecie qui commentata non può trovare realizzazione.
Pertanto non sarà ammissibile un passaggio diretto dei dipendenti dall'imprenditore cedente al cessionario, ma per converso sarà necessario il consenso negoziale del lavoratore ceduto, il quale dovrà formalmente interrompere il rapporto di lavoro con il primo, per stipulare aliunde un rapporto lavorativo ex novo con il datore cessionario.

Pubblicato il 02.04.2001

Autore: Dott. Ugo Nasi


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