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Chi controlla l'Antitrust?
Una domanda apparentemente banale, che, tuttavia, può essere diversamente interpretata variando i presupposti da cui essa ha origine.
“Chi controlla l’antitrust?” può essere inteso come l’interrogativo che ci si pone soffermandosi sulla considerazione per cui l’autorità indipendente non ha organi superiori che possano indirizzarne e verificarne l’operato. Nessuno, in sostanza, dirà mai ai componenti dell’antitrust se hanno agito correttamente o se hanno sbagliato.
Il ricorso alla magistratura può essere inteso, in tal senso, come un ipotesi di tutela di situazioni meritevoli, che l’autorità potrebbe aver travisato, ma non si tradurrà in un giudizio di addebito di responsabilità o di aperta contestazione del provvedimento adottato.
L’opinione pubblica potrebbe dissentire, è vero, ma l’autorità di questo tipo di autorità (scusate il gioco di parole) non si basa sul consenso popolare.
L’antitrust, insomma, può decidere cosa fare o non fare; nel dubbio, potrebbe optare per l’immobilismo e l’inerzia, nella certezza di non sbagliare. Del resto, se qualche comico di nota fama non avesse gettato in faccia agli ascoltatori alcune “magagne” di proporzioni intollerabili, probabilmente molti famosi procedimenti non sarebbero mai stati avviati.
E qui subentra l’altra interpretazione della domanda di cui in premessa: quali soggetti vengono controllati dall’antitrust? Come e perché viene aperto un procedimento nei confronti di un’azienda o di un gruppo di aziende responsabili di aver alterato gli equilibri di mercato?
Si possono leggere, in questi giorni, i commenti entusiastici di alcune note case produttrici di prodotti informatici, per l’avvento di nuovi software che dovrebbero far tornare a decollare il mercato dei personal computer, a causa delle ingenti risorse hardware richieste per poter lavorare serenamente.
Detti commenti, anche all’occhio dei più profani, evidenziano la possibilità, tutt’altro che remota, che tra le suddette grandi case produttrici possa essere stato stipulato un vero e proprio accordo per “appesantire” deliberatamente il codice sorgente delle applicazioni al fine di “spingere” il mercato dell’hardware.
Ipotesi che solo un’autorità antitrust potrebbe fugare, ordinando alle aziende di produrre di codici sorgenti delle applicazioni per poterli analizzare e ricompilare, testandoli su un congruo numero di macchine.
Appare evidente che i test dovrebbero essere condotti sull’hardware anche con la versione normalmente posta in vendita, al fine di verificare se il codice sorgente prodotto dall’azienda in visione all’authority corrisponda effettivamente al codice dei prodotti immessi sul mercato in termini di velocità e prestazioni. Tanto per essere sicuri che nessuno faccia il furbo.
Il problema non è di scarsa rilevanza, perché gli interessi in gioco riguardano centinaia di miliardi di dollari in tutto il mondo, e i precedenti in termini di integrazione e compatibilità tra vari software e tra software e hardware hanno dimostrato che, per ragioni economiche, le multinazionali sono disposte a qualunque compromesso.
Ed è un problema non solo giuridico, perché costringere aziende ed istituzioni a sostituire il parco macchine a seguito dell’aggiornamento del software comporta un dispendio di risorse, non solo economiche, che potrebbero essere validamente impiegate altrove.
Speriamo che qualcuno si attivi ed effettui i controlli necessari ad evitare che i dubbi di un giurista non si traducano rapidamente in realtà.

Tratto da: Pomante.com

Autore: Dott. Gianluca Pomante


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