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Illegittimo il licenziamento disciplinare non immediato ( Cass. Sez. Lav. Sent. 8 gennaio 2001 n.150 ) |
La Cassazione Sez. Lav., nella sentenza n° 150/2001, ha stabilito che la contestazione di infrazioni disciplinari devono essere contestate in via immediata al dipendente; inoltre, il conseguente licenziamento (disciplinare) deve essere adottato subito dopo la contestazione medesima. In difetto, il licenziamento deve considerarsi illegittimo perché in contrasto con l’art. 7 l. n° 300/70 ( Statuto dei Lavoratori ). Nella fattispecie esaminata dalla Corte Suprema, al dipendente, addetto alla riscossione di tributi (con mansioni di ufficiale di qualifica di ottimo) nel 1993, venivano contestati ammanchi per un totale complessivo di £.30.000.000, in relazione agli anni 1990-91 e 1993. Il Giudice di 1° e 2° grado rigettavano il ricorso del lavoratore, condannandolo alle spese di lite. La Corte Suprema, invece, ha ribaltato la sentenza del Giudice d’Appello, poiché la procedura disciplinare (contestazione), sfociata nel licenziamento, non era stata attivata “in immediata connessione temporale con il fatto”. Il principio della immediatezza e della tempestività, relativo alla contestazione e alla irrrogazione della sanzione disciplinare, seppur interpretato “con ragionevole elasticità”, non può compromettere o rendere difficoltoso il diritto di difesa del lavoratore ( cfr. Cass. 5423/1989). La Corte, in linea con l’orientamento consolidato della giurisprudenza (cfr. Cass. 11095/97), ha rilevato che l’immediatezza della contestazione deve essere intesa secondo un significato “relativo”, tale da consentire al datore di accertare le infrazioni disciplinari del lavoratore. Il mancato rispetto dei criteri di immediatezza e tempestività vanno in contrasto con il principio del “giusto affidamento del lavoratore”. Infatti, nell’ipotesi della mancata contestazione immediata, il lavoratore reputa non rimproverabile e non sanzionabile, dal punto di vista disciplinare, la sua condotta successivamente “incriminata”, considerata la facoltatività dell’azione disciplinare. Allo scopo di tutelare il diritto di difesa, il potere disciplinare del datore deve essere esercitato in conformità al principio di buona fede il quale, per l’appunto, ispira la disciplina contenuta nell’art. 7 l. 300/70 e anche nell’art. 2106 c.c. sulla proporzionalità delle sanzioni. Il principio di buona fede e le norme specifiche in materia attuano il principio di parità o uguaglianza sostanziale ex art. 3 Cost. La previsione di particolari obblighi, a carico del datore, ristabilisce la parità nel rapporto di lavoro che, per sua natura, è caratterizzato da una posizione di preminenza del datore medesimo. In tal modo, il lavoratore quale parte debole si vede riacquistare un maggiore peso contrattuale. Il Giudice d’Appello giustificava la mancata contestazione immediata sulla base della disorganizzazione della società di riscossione e della complessità delle verifiche contabili. La Suprema Corte ha puntualizzato che i motivi suindicati non possono in alcun modo “ricadere ai danni della posizione del lavoratore così come tutelata dall’ordinamento”. La Suprema Corte, che qui si considera, ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito ex art. 384 c.p.c., ha dichiarato illegittimo il licenziamento de quo, disponendo l’immediata reintegrazione del ricorrente nel suo posto di lavoro. Per ciò che concerne il risarcimento del danno e il pagamento delle spese di lite, la Corte ha rinviato la causa al Giudice d’Appello competente.
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Autore: Avv. Bruno Sechi |
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