Con il presente articolo intendiamo esaminare il rapporto tra le norme del Trattato CE che regolano la libera circolazione delle merci ed il principio della protezione ambientale, alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia. Si tratta di individuare i limiti che il diritto comunitario pone agli Stati membri nell'adozione di misure nazionali, restrittive della libera circolazione delle merci, che perseguono obiettivi di natura ambientale. Stiamo, in sostanza, parlando di quelle competenze 'residue' che gli Stati membri conservano nei settori non ancora regolamentati a livello comunitario. Prima di affrontare l'argomento in esame, è opportuno rilevare il contributo decisivo della Corte allo sviluppo della politica ambientale comunitaria. In effetti, è proprio grazie alla giurisprudenza della Corte di giustizia se le considerazioni di carattere ambientale rivestono, oggi, un ruolo centrale nell'ambito dei diversi settori di attività dell'Unione europea. Come per altre politiche, la Corte non solo ha guidato, ma spesso anche anticipato l'azione delle istituzioni comunitarie, colmando le lacune nella legislazione vigente. L'apporto dell'organo giurisdizionale comunitario alla materia in esame non va ricercato unicamente nella formulazione e nell'individuazione dei principi. La funzione interpretativa ha rivestito un ruolo altrettanto importante ai fini della corretta applicazione delle disposizioni elaborate dalle istituzioni comunitarie. Ma, se da un lato, l'Unione europea si è arricchita della componente ambientale, dall'altro, il principio della libera circolazione delle merci ha costituito, sin dalla firma dei Trattati di Roma, uno dei pilastri fondamentali della costruzione europea. A questo principio è dedicato un intero titolo del Trattato, il quale comprende gli articoli da 9 a 37 (divenuti, ora, artt.23-31). In base a queste disposizioni, la libera circolazione delle merci all'interno della Comunità comporta: il divieto di dazi doganali e di qualsiasi tassa di effetto equivalente, di restrizioni quantitative e di misure di effetto equivalente, l'adozione di una tariffa doganale comune nei rapporti con i Paesi terzi, il riordinamento dei monopoli nazionali. Finalità delle norme che disciplinano il commercio intra-comuntario è quella di creare un unico mercato, all'interno del quale le merci possano circolare liberamente in condizioni analoghe a quelle prevalenti su un mercato nazionale.
Campo di applicazione degli articoli 30-36 del Trattato a) Il divieto Gli articoli 30 e 34 del Trattato (divenuti, ora, artt.28 e 29 CE) vietano le restrizioni quantitative e le misure di effetto equivalente all'importazione (art.30) e all'esportazione (art.34). Mentre le nozione di restrizione quantitativa è facilmente intuibile - divieto totale o parziale di importazioni ed esportazioni, inclusi i contingenti - la definizione di 'misura di effetto equivalente' richiede il ricorso alla giurisprudenza della Corte. Nella sentenza 'Dassonville', dell'11 luglio 1974, leggiamo che per tale misura deve intendersi "ogni normativa commerciale atta ad ostacolare, direttamente o indirettamente, attualmente o potenzialmente, gli scambi intracomunitari"(1). Affinché una misura nazionale sia considerata tale, devono sussistere due requisiti: deve essere imputabile allo Stato (nel più ampio senso del termine (2)); deve avere effetti restrittivi sugli scambi (misure 'distintamente' applicabili). Per quanto attiene agli effetti della misura, non è necessario, secondo la Corte, "accertare che i provvedimenti riducano di fatto le importazioni dei prodotti considerati, ma è sufficiente che essi abbiano un effetto potenziale sulle importazioni che potrebbero essere effettuate in loro assenza" (3). b) Le deroghe In caso di violazione degli obblighi sanciti dagli artt.30 e 34 del Trattato, può essere invocata una delle deroghe generali previste dall'art.36 (art.30 nella nuova versione del Trattato). E' utile sottolineare che tale disposizione si riferisce a misure 'distintamente' applicabili, consentendo agli Stati membri di introdurre divieti e restrizioni alle importazioni ed esportazioni per una delle ragioni indicate dalla norma, purché non costituiscano un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri (4). Tali deroghe sono tassative e non possono, dunque, prestarsi ad una interpretazione estensiva. Poiché la tutela dell'ambiente non è inclusa nel campo di applicazione della norma, ogni misura ambientale, restrittiva del commercio, la quale non sia intesa a proteggere la salute e la vita delle persone e degli animali o la preservazione dei vegetali, dovrà essere considerata incompatibile con gli artt.30 o 34 del Trattato. c) Le esigenze imperative Tuttavia, nella sentenza 'Cassis de Dijon'(5) la Corte dichiarava che in assenza di una normativa comune o armonizzata in sede comunitaria, una restrizione nazionale alla libera circolazione delle merci, 'indistintamente' applicabile ai prodotti nazionali e ai prodotti importati, deve essere accettata nella misura in cui sia giustificata da 'esigenze imperative' attinenti, per esempio, alla protezione dei consumatori, alla lealtà dei negozi commerciali o all'efficacia dei controlli fiscali. Il riconoscimento, con sentenza del 7 febbraio 1975, che la tutela dell'ambiente costituisce uno degli obiettivi essenziali della Comunità (6) , induce la Corte ad includere questa tutela tra le esigenze imperative che possono giustificare restrizioni al principio della libera circolazione delle merci (e, di conseguenza, limitare l'applicazione degli artt.30 e 34 del Trattato). In assenza di regole armonizzate a livello comunitario, spetta, dunque, agli Stati membri fissare il livello di protezione ambientale, nel rispetto dei principi sanciti dal Trattato. Gli ostacoli alla libera circolazione delle merci possono essere giustificati unicamente se applicati indistintamente ai prodotti nazionali e ai prodotti importati. La disciplina nazionale deve, tuttavia, essere proporzionata e non eccessiva rispetto al fine perseguito. Inoltre, tra le diverse misure idonee a raggiungere l'obiettivo ricercato, uno Stato membro è tenuto a scegliere il mezzo che crea minori turbative agli scambi.
Note bibliografiche: 1) Sentenza dell'11 luglio 1974, in causa 8/74. 2) Questa la definizione della Commissione nella direttiva n.70/50/CEE: "le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative, nonché ogni atto posto in essere da un'autorità pubblica, ivi compresi gli incitamenti". 3) Si rinvia alla sentenza del 20 febbraio 1975 in causa 12/74 e alla sentenza del 24 dicembre 1982 in causa 249/81. 4) L'art.36 del Trattato dispone: "le disposizioni degli articoli 30 e 34 lasciano impregiudicati i divieti o le restrizioni all'importazione, all'esportazione e al transito giustificati da motivi di moralità pubblica, di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di tutela della salute e della vita delle persone e degli animali o di preservazione dei vegetali, di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, o di tutela della proprietà industriale o commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra Stati membri". 5) Sentenza del 20 febbraio 1979, in causa 120/78. 6) Sentenza del 7 febbraio 1985, in causa 240/83.
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