A norma dell’art. 948 c.c. l’azione di rivendicazione, è diretta a far conseguire il bene indebitamente posseduto da altri, di conseguenza il relativo accertamento della proprietà ha funzione di fondamento della condanna al rilascio della res.
Difatti, l’eventuale sentenza di accoglimento di una simile azione, ove passata in giudicato, comporta la condanna del convenuto al rilascio del bene e preclude che in un successivo giudizio fra le stesse parti, detto convenuto possa far valere un diritto reale di godimento su quel bene, rimettendo in discussione la natura indebita del proprio possesso, atteso che questa è necessariamente presupposta da detto giudicato[1].
Tale azione, tendendo al riconoscimento del diritto di proprietà dell’attore e al conseguimento del possesso sottrattogli contro la sua volontà, esige necessariamente la prova della proprietà della cosa da parte dell’attore e del possesso di essa da parte del convenuto[2].
Per l’esercizio dell’azione di rivendicazione non è necessario lo spossessamento del bene senza o contro la volontà, sicché anche quando abbia trasferito il possesso in base ad un’obbligazione assunta contrattualmente non gli è preclusa la possibilità, ove eventi giuridici successivi abbiano determinato il venir meno del diritto dell’accipiens, di proporre anche l’azione reale di rivendica per riottenere il possesso del bene quale proprietario, anziché di agire con l’azione personale di restituzione ex art. 949 c.c.; ovvero, a fronte delle eccezioni del convenuto che opponga un proprio titolo di acquisto della proprietà, di modificare in corso di giudizio la domanda di restituzione originariamente proposta in domanda di rivendicazioni[3].
L’azione di restituzione, è di natura personale e ha il suo fondamento nel venir meno del titolo in base al quale la cosa sia stata trasferita. Con essa l’attore non mira ad ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà, del quale non deve fornire alcuna prova, ma tende ad ottenere la riconsegna della cosa stessa, onde si può limitare alla dimostrazione dell’avvenuta consegna in base ad un titolo e del successivo venir meno di quest’ultimo per qualsiasi causa[4].
Inoltre, la parte che agisce con l’actio negatoria servitutis non ha l’onere di fornire, come nell’azione di rivendicazione, la prova rigorosa della proprietà, neppure quando abbia chiesto la cessazione della situazione antigiuridica posta in essere dall’altra parte, essendo sufficiente la dimostrazione, con ogni mezzo, ed anche in via presuntiva, di possedere la res in forza di un titolo valido. Al convenuto incombe, invece, l’onere di provare l’esistenza del diritto a lui spettante, in virtù di un rapporto di natura obbligatoria o reale[5].
Esercitata l’actio negatoria servitutis da parte dell’attore, se il convenuto eccepisca di essere egli stesso proprietario del fondo che si assume gravato, oggetto del giudizio è l’accertamento della libertà del fondo mentre l’accertamento della proprietà del medesimo ha valore soltanto strumentale; di conseguenza, non essendo la domanda rivolta al recupero del bene, l’onere della prova che grava sull’attore nel possesso del bene è meno rigoroso che nell’azione di rivendicazione e la prova, in caso di insufficienza dei titoli di provenienza, può essere data con ogni mezzo e anche con presunzioni[6].
Posto ciò, la lesione del diritto di proprietà può provocare un danno risarcibile ai sensi e per gli effetti dell’art. 2043 c.c. L’azione di rivendicazione e quella di restituzione, pur tendendo entrambe al medesimo risultato, ossia il recupero della cosa oggetto del diritto controverso, hanno carattere e presupposti diversi. Dunque, ci si chiede quale sia la relazione che si instaura tra le due azioni e soprattutto quali le differenze che intercorrono fra la tutela reale della proprietà (azione di rivendicazione) e la tutela aquiliana, ossia l’azione con la quale il proprietario chiede il risarcimento dei danni per il pregiudizio subito in relazione al suo diritto di proprietà.
Una prima differenza sostanziale si ravvisa nel fatto che, mentre l’azione di rivendicazione e quella negatoria sono tese a contrastare comportamenti volti a mettere in discussione la titolarità del diritto di proprietà, la tutela aquiliana è invocabile, salve alcune ipotesi particolari, solo in presenza di atti che pregiudichino i diritti del proprietario senza, però contestare la titolarità dello stesso.
Inoltre, l’azione reale ha ad oggetto principalmente l’accertamento della proprietà, atteso che l’art. 948 c.c., introdurrebbe un’azione che è, al contempo petitoria – in quanto volta a chiedere l’accertamento della proprietà – e di condanna alla restituzione del bene dal quale il soggetto è stato spossessato. In questo l’azione reale si differenzia da quella personale ex art. 2043 c.c. laddove l’oggetto del giudizio è la prova del danno ingiusto provocata da un soggetto al proprietario, la cui titolarità del diritto non è messa in discussione.
Colui che agisce in giudizio con l’azione di rivendicazione deve vincere la naturale presunzione di proprietà da parte del possessore del bene, pertanto dovrà dimostrare non solo l’illegittimità del possesso altrui, ma anche la titolarità del proprio diritto di proprietà. A tal fine non sarà sufficiente provare in giudizio il proprio atto di compravendita, potendo lo stesso dante causa non essere proprietario, bensì si dovrà provare un acquisto a titolo originario (probatio diabolica), che normalmente implicherà la prova di un proprio possesso ovvero del cumulo del possesso dei vari danti ed aventi causa fino a raggiungere il termine dell’usucapione ventennale: l’attore, infatti, per provare di essere proprietario, deve dimostrare anche che il suo dante causa era effettivo titolare del bene, dovendosi così risalire la catena degli acquisti sino a raggiungere la dimostrazione di un acquisto a titolo originario da parte di un dante causa remoto, ovvero dimostrare l’intervenuta usucapione del bene stesso, attraverso il cumulo di successivi possessi “uti dominus”.
La difesa della parte che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l’azione personale proposta nei suoi confronti, atteso che, per un verso, la controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta, per altro, “la semplice contestazione del convenuto non costituisce strumento idoneo a determinare l’immutazione, oltre che dell’azione, anche dell’onere della prova incombente sull’attore, imponendogli, una prova ben più onerosa – la probatio diabolica della rivendica – di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell’azione inizialmente introdotta”[7]
Questo rigoroso onere probatorio si attenua solo laddove il bene in contestazione provenga pacificamente da un dante causa comune ai due litiganti o qualora l’unicità del dante causa venga contestato in modo generico e immotivato, o senza il conforto di prove specifiche e pertinenti.
Ai fini del risarcimento del danno ex art. 2043, invece, sarà sufficiente la dimostrazione dell’acquisto a titolo derivativo oppure la prova che il proprio legittimo possesso sia stato inciso dall’altrui condotta di spossessamento. Alla luce di ciò deriva che, poiché l’art. 948 c.c. prevede un’azione di accertamento del diritto di carattere reale, tale azione non necessita di alcun presupposto che non sia quello oggettivo della titolarità della proprietà alla quale corrisponda lo svuotamento del possesso, in quanto il proprietario ha diritto ad essere riconosciuto tale anche se colui che lo ha spossessato abbia agito in perfetta buona fede; l’azione aquiliana ex art. 2043 c.c., invece, essendo finalizzata a censurare un danno ingiusto con conseguente richiesta di risarcimento del danno, richiede la dimostrazione del comportamento soggettivamente riprovevole di colui che ha spossessato il proprietario.
L’azione di rivendicazione, infine, è un’azione imprescrittibile, salvi gli effetti dell’usucapione, mentre quella risarcitoria ex art. 2043 c.c., essendo un’azione personale a tutela di un diritto di credito, soggiace alla prescrizione speciale quinquennale.
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[1] Cass. 14-7-83, n. 4824
[2] Cass. 26-6-91, n. 7162
[3] Cass. 26-4-94, n. 3947
[4] Cass. 30-11-87, n. 8895 e cfr. Cass. 2-3-78, n. 1051 e Cass. 27-1-97, n. 808
[5] Cass. 25-3-99, n. 2838; Cass. 22-3-01; Cass. 23-1-2007, n. 1409
[6] Cass. 23-3-99, n. 2982 e Cass. 18-8-03, n. 12091
[7] Cass., civ., 26 febbraio 2007, n. 4416