6. L'esperienza tedesca fa registrare altrettanta intensa protezione della parte debole del rapporto contrattuale nelle operazioni di credito al consumo. Tutta la legislazione, a partire dall'Abzahlungsegesetz del 1894 fino alla recente legge del 17 dicembre 1990 (Verbraucherkreditgesetz) attuativa delle direttive comunitarie sulla materia che ci occupa, sottrae, da un lato, questa categoria negoziale alla regola di neutralità dell'atto di autonomia e, dall'altro, evidenzia una spiccata propensione di quel legislatore e di quei giudici a concepire questo comparto come caratterizzato da proprie regole di ordine pubblico economico a tutela di interessi collettivi. La sfera soggettiva di applicabilità della legge è limitata ai contratti di credito conclusi con il consumatore. In ciò la legge tedesca si diversifica dalle similari disposizioni contenute nelle discipline francese ed inglese, ove il limite quantitativo viene usato come unico discrimine di questo tipo di contratti, ed anche dalla legge italiana, visto che, diversamente da questa, non ricorre una chiara definizione di consumatore, ma il relativo concetto si ricava, per esclusione, dal tenore della norma che qualifica il contratto di credito come quello "per mezzo del quale un creditore concede, o promette di concedere, ad un consumatore un credito a titolo oneroso, in forma di mutuo, di dilazione o di una ulteriore facilitazione finanziaria" (art. 1, co. 2). E dunque, escludendo l'applicabilità ad ipotesi di credito "destinato al finanziamento" (dell'esercizio) "dell'attività commerciale o professionale" del sovvenuto (art.1, co. 1), la disciplina sul credito al consumo si applica a casi quali "l'avvio di una attività commerciale o di lavoro autonomo che prevede un'erogazione" non "superiore ai 100.000 marchi" (art. 3, co. 1, n. 2). Sotto il versante dell'oggetto, la legge ricomprende tra i contratti sottoposti alla particolare disciplina tutti quelli che, a fronte di una erogazione creditizia o di una prestazione di beni o servizi per un valore non inferiore a 400 marchi, prevedano il pagamento rateale del corrispettivo a carico del consumatore, con una dilazione onerosa non superiore ai tre mesi. Particolarmente dettagliata è la disciplina dei doveri di informazione e di ulteriori formalità: la loro inosservanza genera la nullità del contratto, anche se sono presenti, nella norma dell'art. 6 che detta le conseguenze per difetti di forma, numerose ipotesi di sanatoria. La disciplina del diritto di recesso del consumatore è contemplata nel successivo art. 7, che prevede che la dichiarazione di volontà divenga efficace "solo quando il consumatore non la revoca entro il termine di una settimana" dalla consegna del testo contrattuale contenente le informazioni circa l'esercizio di questo diritto. La norma che meglio coglie i reali bisogni di tutela del consumatore all'interno del mercato dei beni considerati è tuttavia l'art. 9 della legge, intitolato ai negozi collegati. Qui si precisa che "un contratto di acquisto è da considerarsi collegato ad un contratto di credito se il credito risulta essere funzionale al finanziamento dell'acquisto ed entrambi i contratti sono perciò da considerarsi in un'ottica di unicità economica". In questo modo risulta più semplice estendere la revoca (o il recesso) al negozio collegato.
DISTRIBUZIONE DEL RISCHIO E TRASPARENZA DELLE CONDIZIONI CONTRATTUALI NEL DIRITTO COMUNITARIO.
1. Come si è visto, la disciplina comunitaria sul credito al consumo è contenuta nella fondamentale direttiva CEE n. 102 del 22 dicembre 1986 relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri nella materia in oggetto, la quale rappresenta il momento conclusivo, il risultato di un iter iniziato nel 1974 con la predisposizione, da parte della Commissione, di un avant project e proseguito con la Proposta del 1979, successivamente modificata nel 1984. A questa direttiva sono seguiti altri importanti atti comunitari (in particolare, la direttiva n. 90/88 CEE e n. 98/7 CE), tuttavia relativi al solo profilo concernente contenuti e metodo di calcolo del tasso annuo effettivo globale (TAEG). Prima dell’avvento della legge italiana di recepimento della direttiva, oggetto di analisi è stato l’inadempimento del contratto di credito al consumo nei casi in cui esso abbia quale elemento dominante la presenza di un terzo soggetto che provveda al finanziamento dell'operazione. Questa nuova figura contribuiva a realizzare una completa separazione della relazione datore di credito-consumatore (derivante dal contratto di finanziamento) da quella venditore-consumatore (collegata al contratto di compravendita). La ovvia conseguenza è l’inopponibilità al finanziatore delle eccezioni relative al contratto di compravendita e l’aggiramento della normativa sulla vendita con riserva di proprietà. In particolare, concernendo la norma di cui all’art. 1525 cod. civ. la vendita a rate sarebbe risultata inapplicabile al caso di specie l'eccezione, da parte del consumatore, che il mancato pagamento di una sola rata, ove non superiore all'ottava parte del prezzo, non dà luogo alla risoluzione del contratto, allorquando nella domanda di finanziamento fosse stata inserita una clausola che preveda a carico del consumatore la decadenza dal beneficio del termine rispetto alle rate successive nel caso di ritardo o di mancato pagamento anche di una sola rata, trattandosi appunto di contratto diverso dalla vendita con riserva di proprietà. In questo modo, l'operatività di tali clausole di decadenza costituisce la premessa per la utilizzazione di onerose tecniche di refinancing a cui il consumatore molto spesso, nell'impossibilità di adempiere, si sottopone anche per impedire quella situazione di insolvenza che gli precluderebbe ogni ulteriore possibilità di ricorso al credito nel consumer finance market. Così pure, diversamente da quanto previsto dall'art. 1526 cod. civ. che, nel caso di risoluzione del contratto per inadempimento del compratore prevede - a carico del venditore - la restituzione delle rate riscosse “salvo il diritto ad un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno”, il finanziatore, a seguito dell’inadempimento del consumatore nelle rate di rimborso (rectius, in una sola rata, indipendentemente dal suo ammontare), potrà agire esecutivamente sul bene acquistato dal consumatore grazie al finanziamento, atteso che tale bene è costituito in garanzia del finanziamento stesso. Ove dalla vendita forzata del bene non si sia soddisfatto l’intero credito, potrà pretendere dal consumatore la differenza, salvo sempre il diritto al risarcimento del danno. Quanto alle vicende inerenti all'inadempimento del venditore (mancata consegna del bene, ovvero consegna di cosa viziata o non avente le qualità promesse), la richiamata scissione dell'operazione in due contratti (rispettivamente, di compravendita e di mutuo), configurati autonomanente, determinava l'inopponibilità al finanziatore della exceptio inadimplenti contractus, atteso che la eccezione di inadempimento avrebbe qui avuto ad oggetto obbligazioni nascenti da un contratto diverso da quello di compravendita. A fronte di tale vicenda la dottrina, muovendo dal rilievo che il contratto di finanziamento, in quanto inserito in una più vasta trama di relazioni intercorrenti tra i partecipanti all’operazione, ha, nel corso degli anni, sottolineato l'esigenza di un necessario superamento della cennata prospettiva. Da queste osservazioni si giustifica il ricorso ad una delle tecniche giuridiche, quella del collegamento negoziale, maggiormente usate per tentare una difficile ricomposizione degli interessi in gioco nei casi in cui la mancata corrispondenza dell'operazione economica ad uno dei tipi contrattuali disciplinati dal legislatore determini la necessità di ricostituire una qualche tutela in capo all'acquirente-consumatore. Il contratto di credito al consumo (id est, la pluralità degli atti posti in essere al fine di conseguire il risultato dell'operazione economica) viene così considerato quale contratto atipico trilaterale riconducibile ad una pluralità di cause distinte tra loro ma preordinate alla realizzazione della funzione economico-sociale di uno dei negozi collegati, i quali pertanto vengono a trovarsi, tra loro, in un rapporto per cui la validità e l'efficacia di uno di essi influenza la validità e l'efficacia dell'altro.
2. Può perciò facilmente comprendersi come l’attesa di una direttiva comunitaria in materia di credito al consumo fosse particolarmente sentita in Italia, a causa sia dell’assenza di una legislazione specifica, sia delle perplessità a considerare sufficiente il ricorso al collegamento negoziale per realizzare un contemperamento degli interessi delle parti contrattuali almeno pari a quello previsto dal legislatore in tema di vendita con riserva della proprietà. Il vincolo imposto al legislatore interno di emanare norme tese ad evitare la possibilità di un ingiustificato danno per una delle parti appariva, a tal stregua, attento alle conseguenze che la scissione della complessiva operazione economica in due negozi (vendita e mutuo) poteva comportare, e cioè l'aggiramento delle norme che regolano gli effetti dell'inadempimento dell'acquirente nella vendita con riserva di proprietà, con conseguente sottoposizione dei beni ad una procedura esecutiva il cui risultato non è quello di liberare il debitore dall'obbligazione, ma solo di verificare se il ricavato della vendita del bene soddisfi o meno il mutuante, essendo il consumatore - in caso contrario - tenuto al versamento del residuo. Al fine di realizzare un equilibrio delle posizioni giuridiche delle parti prima ancora della conclusione del contratto venivano inoltre previste, tanto nell’avant project quanto nelle evoluzioni successive, norme volte ad informare il consumatore sui fattori e sugli elementi che possono esercitare un’influenza rilevante ai fini del compimento dell'operazione economica di acquisto, con particolare attenzione alla prevenzione di messaggi pubblicitari misleading. Quale rimedio di carattere generale, utilizzando un meccanismo presente nella legislazione francese sul credito al consumo, noto al legislatore italiano in tema di regolamentazione delle vendite a domicilio di valori mobiliari (art. 18-ter della legge 7 giugno 1974, n. 216), veniva inoltre prevista l'istituzione di un periodo di riflessione di almeno sette giorni a favore del consumatore per recedere dal contratto di credito che fosse stato il risultato di una visita “ricevuta dal consumatore senza sua preventiva richiesta” (art. 4 della proposta del 13 giugno 1984). Di tali avanzate proposte la direttiva n. 87/102 del 22 dicembre 1986 recepiva tuttavia le indicazioni più marginali. Non si può omettere di segnalare, anche al fine di comprendere la portata complessiva della direttiva in parola, la scomparsa, nel testo di questa, della norma in tema di delai de réflexion (la cui previsione diviene meramente facoltativa a norma dell'art. 4 par. 3), con conseguente ridimensionamento del complessivo disegno di protezione dei mutuatari deboli. E’ anzitutto opportuno precisare che le norme contenute nella direttiva 87/102 hanno ad oggetto tutti i contratti di credito, cioè quei contratti in base ai quali il creditore concede o promette di concedere al consumatore un credito sotto forma di dilazione di pagamento, di prestito o di altra analoga facilitazione finanziaria (art. 1, par. 2, lett. c), tranne i contratti elencati all’art. 2 della direttiva stessa, e cioè principalmente quelli destinati all’acquisto di diritti di proprietà su terreni o immobili, ovvero al restauro o al miglioramento di immobili, ovvero i contratti di locazione, con esclusione dei contratti di leasing, ovvero i contratti di credito che non prevedano remunerazione degli interessi. Sono inoltre sottratti alla sfera di operatività della direttiva i contratti di credito stipulati sotto la forma della apertura di credito in conto corrente, diversi dai conti coperti da una carta di credito, ai quali tuttavia sono applicabili le disposizioni in tema di informazioni al consumatore, nonché quei contratti che prevedano il rimborso del credito da parte del consumatore entro un termine breve, nonché, infine quei contratti relativi ad importi particolarmente modesti. All’art. 7 viene previsto, sotto il profilo dell'inadempimento del consumatore, che “in caso di crediti concessi per l’acquisizione di beni, gli Stati membri stabiliscono le condizioni alle quali il bene può essere recuperato, in particolare quando il consumatore non abbia dato il suo consenso. Essi curano inoltre che, quando il creditore rientra in possesso del bene, i conteggi tra le parti siano stabiliti in modo che tale recupero non comporti un ingiustificato arricchimento”. Trattasi dunque di una norma decisamente meno favorevole al consumatore della corrispondente previsione inserita nel progetto di direttiva. Al fine di recuperare dalla prescrizione comunitaria spunti esegetici favorevoli al consumatore, osservavo, in sede di primo commento alla direttiva , che ove il rinvio all’ingiustificato arricchimento avesse implicato al legislatore interno il mero richiamo al relativo istituto, la previsione stessa sarebbe risultata, per l’Italia, decisamente inutile, attesa la natura di rimedio generale dell’azione ex art. 2041 cod. civ.. Ai fini di una corretta attuazione della norma in parola, il legislatore interno avrebbe dovuto porre in essere una serie di disposizioni che: 1) definiscano quando si abbia inadempimento da parte del consumatore; 2) stabiliscano le condizioni alle quali il bene può essere recuperato; 3) precisino se si abbia o meno risoluzione del rapporto e, nel caso negativo, entro quali limiti sia ancora obbligato il consumatore. Ipotesi a sé rappresenta, nella direttiva, l’inciso “quando il consumatore non abbia dato il suo consenso”, poiché in questo caso al legislatore interno sembra rimessa l’emanazione di una disciplina in qualche modo differenziata da quella ordinariamente volta a regolare le condizioni alle quali il bene può essere recuperato. Più chiara è invece la previsione che regola la facoltà per il consumatore di adempiere in via anticipata gli obblighi che gli derivano dal contratto di credito, statuendo che “in tal caso, in conformità alle disposizioni degli Stati membri, egli deve avere diritto ad un’equa riduzione del costo complessivo del credito” (art. 8). Anche rispetto all’ipotesi di inadempimento del venditore la direttiva offre soluzioni meno avanzate rispetto alle aspettative che potevano nutrirsi in base alle proposte progressivamente succedutesi, soprattutto in quanto della responsabilità solidale tra fornitore e creditore nel caso di inadempimento del primo. Ci si limita a prevedere, al primo paragrafo dell’art. 11, che “gli Stati membri provvederanno affinché l'esistenza di un contratto di credito non pregiudichi in alcun modo i diritti del consumatore nei confronti del fornitore di beni o di servizi acquisiti in base a tale contratto qualora beni o servizi non siano forniti o non siano comunque conformi al contratto di fornitura”. La disposizione in parola va pertanto letta insieme alle precedenti norme della direttiva che, da un lato, prevedono la possibilità da parte del consumatore di far valere nei confronti del terzo cessionario le eccezioni ed i mezzi di difesa che poteva far valere nei confronti del creditore originario, ivi compreso il diritto alla compensazione in quanto ammesso nello Stato membro (art. 9) e, dall'altro, statuiscono che, ove al consumatore sia consentito di effettuare pagamenti ovvero di offrire garanzie a mezzo di titoli cambiari et similia, gli Stati membri debbono provvedere a che «il consumatore sia adeguatamente protetto in tale uso di questi strumenti» (art. 10). La presenza del finanziatore è invece considerata nel secondo paragrafo della norma di cui all’art. 11, la quale prevede che il consumatore ha diritto di procedere contro il creditore solo subordinatamente alla sussistenza delle seguenti condizioni: 1) venga in considerazione un contratto di credito «finalizzato», concluso cioè con persona diversa dal fornitore, ma a questi legata da un precedente accordo in base al quale il credito è messo esclusivamente da quel creditore a disposizione dei clienti di quel fornitore per l'acquisto di merci o di servizi di tale fornitore; 2) ottenuto il credito, al consumatore non vengano forniti i beni o i servizi considerati nel contratto di credito, o vengano forniti solo in parte, o non siano conformi al contratto di fornitura; 3) il consumatore “ha proceduto contro il fornitore, ma non ha ottenuto la soddisfazione cui aveva diritto”. E’ in realtà, quest’ultimo punto a stravolgere la precedente proposta in quanto, grazie ad esso, la responsabilità del creditore, da solidale qual era, diviene meramente sussidiaria. Ciò è tanto più singolare quando si osservi che la stessa direttiva riconosce un collegamento negoziale tra l'acquisto dei beni ed il contratto di credito finalizzato proprio a quell'acquisto.
3. Sul piano della trasparenza vengono, nella direttiva, principalmente in considerazione la disciplina del tasso annuo effettivo globale (TAEG), da un lato, quella sulla forma e sui contenuti del contratto, dall’altra. Con riferimento al primo degli istituti ora menzionati, l’originario art. 3 della direttiva n. 87/102 testualmente disponeva che “nella pubblicità o nelle offerte esposte negli uffici commerciali deve essere citato anche, espresso in percentuale, il tasso annuo effettivo globale…….”. La definizione del TAEG era invece contemplata dall’art. 1, il quale precisava che per “tasso annuo effettivo globale” dovesse intendersi “il costo globale del credito al consumatore, espresso in percentuale annua dell’ammontare del credito concesso e calcolato secondo i metodi esistenti negli Stati membri” (lett. e); che per “costo totale” (equivalente a “globale”) del “credito al consumatore” dovessero invece intendersi “tutti i costi del credito compresi gli interessi e gli altri oneri connessi con il contratto di credito, determinati conformemente alle disposizioni o alle prassi esistenti o da stabilire negli Stati membri” (lett. d). Da ciò due considerazioni, puntualmente segnalate in dottrina. La prima è che la direttiva non pone obblighi di pubblicità a carico dei soggetti che intendano svolgere direttamente attività di concessione di credito al consumo. La seconda che, nel rinviare alla disciplina dei singoli Stati membri la indicazione degli elementi utili a determinare il costo totale del credito, il legislatore comunitario dell’epoca di fatto rinuncia a fissare una regola uniforme in grado di garantire un più elevato livello di tutela del consumatore. La situazione muta con la direttiva 90/88 del 22 febbraio 1990 che, attraverso l’introduzione di un articolo 1 bis, si perita di instaurare un unico metodo di calcolo del TAEG all’interno dei paesi dell’Unione, elaborando una formula matematica unica e determinando le componenti da prendere in esame nel calcolo stesso. Le prescrizioni sulla forma e sul contenuto dei contratti di credito al consumo sono contemplate dall’art. 4 della direttiva. L’incipit della norma dispone che “i contratti ….. devono essere conclusi per iscritto” e che “il consumatore deve ricevere un esemplare del contratto scritto” (par. 1). Trattasi di prescrizione rigida, priva di eccezioni, che costituisce – segnatamente per la dottrina giuridica italiana – un forte segnale verso il ritorno ad una sorta di formalismo nei contratti di massa (rectius, nei contratti del consumatore). A questo primo livello di tutela del consumatore si affianca, nel secondo paragrafo dell’art. 4, una più rafforzata forma di protezione informativa costituita dalla imposizione di un contenuto minimo obbligatorio del contratto. La norma prevede che il documento scritto debba contenere: a) un’indicazione del tasso annuo effettivo globale espresso in percentuale; b) un’indicazione delle condizioni secondo le quali il tasso annuo effettivo globale può essere modificato; c) un estratto dell’importo, del numero e della periodicità o delle date dei versamenti che il consumatore deve effettuare per rimborsare il credito e pagare gli interessi e le altre spese, nonché l’importo totale di questi versamenti, quando ciò è possibile; d) un estratto degli elementi di costo che sono riportati nell’articolo 1-bis, paragrafo 2. E’ inoltre previsto che il documento scritto ricomprenda gli altri elementi essenziali del contratto e che gli Stati membri possano prescrivere la obbligatoria inclusione nel contratto di uno o più degli indicatori riportati in un elenco allegato alla direttiva. |